giovedì 23 luglio 2020
Le storie dei "nuovi" poveri capitolini, falcidiati dal lockdown: Serena, la giocattolaia e Peppe il barista Hanno dovuto chiudere le loro attività, sono coperti
I “nuovi poveri” in fila davanti al centro allestito da Sant’Egidio a Cinecittà

I “nuovi poveri” in fila davanti al centro allestito da Sant’Egidio a Cinecittà

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Un viaggio dentro la «pandemia sociale». Territorio per territorio, città per città. È quello che "Avvenire" ha cominciato ieri, da Roma, e che farà tappa in diversi centri del Paese. Era il 23 aprile scorso, quando ancora in piena emergenza coronavirus, papa Francesco durante la Messa del mattino a Santa Marta disse parole dure e profetiche. «Tante famiglie hanno bisogno, fanno la fame e purtroppo li aiuta il gruppo degli usurai. Questa è un’altra pandemia, la pandemia sociale». L’Italia era rinchiusa in casa eppure l’allarme già risuonava alto e forte: troppe persone non erano in grado di mettere insieme il pranzo con la cena, troppe facce mai viste avevano bussato subito alle mense della Caritas e agli sportelli dei Comuni per chiedere aiuto. Il numero degli indigenti è raddoppiato in quelle settimane, con picchi incredibili in zone dimenticate della penisola. Famiglie numerose, partite Iva senza prospettiva, anziani soli: è questo il popolo che incontrano ogni giorno, da mesi, migliaia di operatori e volontari. La presenza dello Stato si accompagna a quella, fondamentale, del Terzo settore, con molte realtà cattoliche in prima linea. Sullo sfondo, si intravede già però il frutto malato prodotto dalla "pandemia sociale", che su queste pagine abbiamo più volte documentato: il moltiplicarsi dei casi di usura, di sfruttamento, di disumanità, insieme al guanto di sfida lanciato dalle grandi organizzazioni criminali alle istituzioni. Gli aiuti economici per il Covid fanno gola alle mafie. Per questo, al territorio servono anticorpi efficaci, da ricercare nella società civile e nelle risposte attese dalla politica. (D.M.)

Serena ha 64 anni e una grande passione, creare centrini all’uncinetto. «È una cosa che amo tantissimo. Prima le amiche mi portavano il cotone e io li facevo gratuitamente. Ora mi devo far pagare». Fa fatica a pronunciare queste parole, mentre le lacrime le scendono sul viso. Un’emozione che ricorda i film del neorealismo del dopoguerra. Ma siamo nel terzo millennio. La incontriamo davanti al centro della Comunità di Sant’Egidio di Cinecittà mentre fa la fila per prendere un pacco di generi alimentari. Perché Serena è una "nuova povera", uno dei drammi del Covid-19 che ha aggravato tante situazioni. «Io e mio marito avevamo un negozio di giocattoli. Ma ora stiamo chiudendo. Stavamo in difficoltà anche prima ma c’era la speranza di riprenderci. Con l’epidemia la speranza è crollata. Lo Stato ci ha dato 600 euro al mese per due mesi, ma anche quando eravamo chiusi abbiamo dovuto pagare l’affitto di 1.500 euro al mese». Ed è vero dramma. «Per pagare i debiti del negozio abbiamo dovuto vendere casa. Ora viviamo da nostro figlio, ma ufficialmente siamo dei "senza dimora"».

E anche qui Serena non riesce a trattenere le lacrime. Ed è difficile non essere coinvolti in quel dignitoso dolore. Che ha altri capitoli. «Nostra figlia ha 33 anni, fa la commessa, ma in nero. Il figlio maschio ha 25 anni, fa il tatuatore ma non lavora perché ha avuto un incidente». Così un mese fa Serena ha deciso di venire qui. «Purtroppo mi servivano anche i viveri. A Roma si dice "o mangi sta’ minestra o ti butti dalla finestra". Io dalla finestra ancora non mi butto e sono venuta. Ma prima non avrei mai immaginato di doverlo fare». Guarda i tanti volontari che con pazienza e impegno accolgono le persone. «Non ti fanno pesare la situazione. Ti aiutano davvero, ti senti in famiglia. Vengo qui anche per la preghiera». Ci saluta con un commovente messaggio. «Spero di tornare a fare i centrini solo per piacere e non per bisogno».
Accanto a lei l’amica Francesca, 60 anni. Sono venute assieme la prima volta e continuano a farlo. «Vedevo la fila e per curiosità ho chiesto. Ho dovuto vincere la vergogna, ma alla fine sono venuta». Perché, dice, «ero in bilico ma poi sono sprofondata». La sua era una famiglia normale, tranquilla. Il marito architetto e lei lo aiutava. Poi lui muore e, ricorda Francesca, «la vita è cambiata in un battibaleno. Non ho pensione, mi aiutano i parenti, ma per pagare i debiti ho dovuto vendere i quadri di mio marito». Ma durante il lockdown è rimasta a casa e anche queste piccole entrate sono scomparse. Mentre resta l’affitto di 350 euro al mese, le bollette e "qualche arretrato".

Guarda indietro Francesca, con tristezza. «Problemi non ne avevo, ora è tutto precipitato. Di carattere sono positiva ma adesso vacillo». Ora si aggrappa alla speranza di riuscire a vendere una casa nel suo paese d’origine. «Mi dà forza pensare che questa condizione sarà momentanea. I poveri sono altri - dice con umiltà -, per me è solo un momento difficile che speriamo finisca presto». E anche lei ha parole di ringraziamento per i volontari. «Non risolvono i miei problemi che sono i debiti, ma assieme al pane mi danno ascolto e una parola di conforto». Così Francesca fa una promessa. «Quando potrò, aiuterò io. Ora mi danno da mangiare, dopo darò io una mano».


In fila davanti ai 30 centri aperti dalla Comunità trasteverina nella Capitale anche ex benestanti come Francesca,
vedova di un architetto, che ha dovuto vendere i quadri di famiglia e ora non sa come tirare avanti

E di lavoro qui in piazza dei Consoli, nel popolare quartiere di Cinecittà, ce n’è davvero tanto. E non solo qui. Sant’Egidio prima del Covid aveva tre mense a Trastevere. Ora ha 30 centri di distribuzione di pacchi alimentari in tutta la città. Aperti un giorno alla settimana. A Cinecittà il sabato. Alle 15 c’è già una lunga fila che va avanti fino alle 18. Tutto ordinato e tranquillo. Aperto il 25 aprile, accoglie ogni sabato 200 persone. In tutta la città sono più di 6mila i nuclei familiari a ricorrere ai centri di distribuzione. «Due volte e mezzo i numeri di prima del Covid. Siamo stupiti di scoprire una città che non conoscevamo e che è emersa con l’epidemia», riflette il coordinatore del centro Giorgio Bevilacqua. Qui, ci spiega, più della metà sono italiani, ma anche in altri centri. Ad aiutarli è "una bella città", mille volontari in più, persone che non lo avevano mai fatto. Tocca a loro ascoltare le storie delle nuove povertà. Che spesso nuove non sono.

Come Peppe, 57 anni, romano verace. «Farei il barista. Come famiglia avevamo un bar ma poi l’abbiamo perso. Ho lavorato l’ultima volta lo scorso inverno, solo per due settimane. Cercano solo i giovani...», racconta con tristezza. E come vive? «La mia compagna fa le pulizie due giorni a settimana. In nero. E prende 240 euro al mese. Ho due figli di 4 e 10 anni, e per andare avanti ci aiuta mia mamma che ne ha 85». Così anche lui ad aprile ha cominciato a venire al centro. «Non mi vergogno. E di cosa dovrei vergognarmi? Se posso dò anche una mano». Altri, denuncia, «non vengono perché dicono che ci sono i bengalesi. Ci vogliono far fare la guerra tra poveri. Io non guardo il colore della pelle, le persone le valuto per quello che sono».

Giulia, 55 anni, è finita nei guai proprio per il lockdown, ma anche prima non viveva certo nel lusso. «Veniamo dalla campagna pugliese e mamma ci ha abituati a vivere con le scarpe usate e i vestiti donati dalla parrocchia. Lei a 87 anni metteva ancora una coperta per terra per mettere oggetti usati da vendere». Abituata dalla madre a vivere di poco, ora Giulia ha pochissimo. «Ho una pensione di invalidità dell’83%, circa 250 euro. E lavoro per un’impresa di pulizie, ma posso guadagnare al massimo 400 euro, altrimenti perdo la pensione». Il compagno fa sostituzioni nella mensa dell’ospedale San Giovanni. «Lavora e non lavora. Durante il lockdown tanto, ora no». Giulia, invece, durante il lockdown ha lavorato la metà. Per questo ha deciso di venire al centro, anche perché con lei vive una sorella e una nipote con un figlio. «Non mi vergogno. Non chiedo aiuto perché non voglio fare niente. Sono costretta. Ho tanti debiti da pagare. Fatemi lavorare di più. La vergogna sarebbe prendere il reddito di cittadinanza e non lavorare». Anche lei vuole ringraziare i volontari. «Sono accoglienti, non ti fanno sentire come una che chiede l’elemosina». E promette che verrà anche lei ad aiutare. «Chi ha poco sa cosa vuol dire e aiuta gli altri».

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