lunedì 25 ottobre 2021
Sulle conseguenze della pandemia sembra essere già partito un pericoloso revisionismo statistico, cavalcato anche da alcuni autorevoli organi di informazione. Il "caso" dell'ultimo report dell'Iss
La Rianimazione dell'Ospedale Manzoni di Lecco

La Rianimazione dell'Ospedale Manzoni di Lecco - Ansa

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C’è una considerazione che tiene banco nel revisionismo statistico sui decessi da Covid e che viene rilanciata anche da autorevoli organi di informazione. E ruota attorno a un postulato dalle conclusioni troppo frettolose. Eccolo: tra i morti per Covid, solo il 2,9% è effettivamente dovuto al Sars-CoV-2, perché solo questa percentuale di pazienti era priva di altre patologie quando è stata contagiata – a fronte del restante 97% alle prese con una o più malattie –. Insomma, se così fosse la portata della pandemia sarebbe da riconsiderare. E, in fondo, certi allarmismi sarebbero (stati) ingiustificati perché la morte è sopraggiunta, nella stragrande maggioranza dei casi, in pazienti anziani e pluripatologici.

Gli autori di questa “lettura” fanno deduzioni isolando un dato contenuto in un Report diffuso il 19 ottobre dall’Istituto superiore di sanità (Iss). Nel Report quel 2,9% effettivamente compare nella tabella 1, quella relativa alle patologie più comuni osservate nei pazienti deceduti. Ma a guardare bene il contesto redatto dall’Iss, il postulato revisionistico fatica a stare in piedi. Intanto perché il dato del 2,9% si riferisce solo ad un campione di pazienti deceduti: 7.910 sui 130.468 presi in considerazione dall’Istituto al 5 ottobre scorso. Non solo: ieri l’Iss ha precisato che «nel rapporto non è affermato che solo il 2,9% dei decessi attribuiti al Covid-19 è dovuto al virus». Ma che il 2,9% si riferisce «ai pazienti deceduti con positività per Sars-CoV-2 che non avevano altre patologie diagnosticate prima dell’infezione».

Se poi si analizzano le complicanze sorte per infezione da Sars-CoV-2, viene fuori che il 93,6% delle stesse ha una causa: l’insufficienza respiratoria acuta, di gran lunga superiore rispetto alle altre complicanze. Ovvero, il danno renale acuto (24,9%), una sovrainfezione (20,1%) e il danno miocardico acuto (10,2). Basterebbe questa classificazione – sulla quale farà luce, a partire dal 2022, l’Istat – per farci comprendere quanto abbia pesato il ruolo del virus nei decessi, anche in persone anziane e con patologie gravi. Senza considerare che, nel 2020, in Italia è stato registrato il numero più alto di morti dal Dopoguerra: 746.146, 100.526 decessi in più rispetto alla media 2015-2019.

Intendiamoci, nessuno nega le gravi e spesso concomitanti malattie presenti nei deceduti con positività al virus, l’età media dei quali è di 80 anni: ipertensione arteriosa (65,8%), diabete (29,3%), cardiopatia ischemica (28%), come anche cancro e scompenso cardiaco hanno portato tanti di loro in situazioni critiche o irreversibili. Ma, come afferma il direttore delle Malattie infettive del Policlinico San Martino di Genova, Matteo Bassetti, «è proprio accettabile che un paziente obeso, che ha il diabete, o ha una fibrillazione atriale, debba morire per Covid? Il problema è che quando questi numeri vengono letti da ignoranti e speculatori si dà alla gente una informazione scorretta».

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