giovedì 12 settembre 2019
Il grande pensatore gesuita, amico di De Lubac, Von Balthasar e Rahner, sviluppò una “cristologia filosofica” non come teologia parallela ma come discorso razionale alla luce della redenzione
Il gesuita francese Xavier Tilliette (1921-2018)

Il gesuita francese Xavier Tilliette (1921-2018)

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Cristologia filosofica: in questa espressione singolare ed estremamente impegnativa consiste la consegna di padre Xavier Tilliette, lo studioso francese scomparso il 10 dicembre dell’anno scorso che ci ha lasciato un’opera vastissima, contrassegnata perlopiù dallo studio del rapporto tra i grandi filosofi e la figura di Cristo.

Pur ben consapevole che Gesù non appartiene «alla stirpe di Socrate», non avendo insegnato alcuna filosofia né fondato alcuna scuola, Tilliette è sempre stato convinto assertore della ineludibilità del “caso Cristo” per qualsiasi vero pensatore: il suo messaggio, la sua dottrina, la sua etica non possono non provocare i filosofi ancor oggi. E per la verità lo hanno fatto lungo i secoli, soprattutto con quella modernità che è stata segnata da un pensiero che ha voluto farsi e dirsi professarsi ateo: è questo, per dirla col suo maestro e amico Henri de Lubac, «il dramma dell’umanesimo ateo».

Più che restare imbrigliato nell’annosa disputa sulla “filosofia cristiana”, Tilliette si è imbarcato nell’avventura della “cristologia filosofica”, che come ha scritto su “Avvenire” Francesco Tomatis in occasione della sua morte, «non è semplicemente una teologia che abbia come proprio centro propulsore la cristologia. In Tilliette opera una vera e propria filosofia, cioè una ricerca razionale di per sé priva di riferimento e soprattutto di fondamento teologico. È questa filosofia nuda, priva di presupposti altri, che scopre e indaga il Cristo».

Allo sforzo speculativo del gesuita a lungo docente all’Institut Catholique di Parigi e alla Gregoriana è dedicato ora un saggio di Simone Stancampiano, docente di Filosofia della religione all’Antonianum, edito da Studium e semplicemente intitolato Tilliette (pagine 224, euro 19,50).

Il pensiero del teologo e filosofo amico di Rahner e von Balthasar oltre che di De Lubac è indagato in tutte le fasi in cui si è sviluppata l’idea centrale di approfondire lo studio filosofico di Cristo. Da Hegel a Schelling, da Ricoeur a Marcel e Blondel, sino agli amici italiani Pareyson e Del Noce, tante figure rivivono, a partire dalla consapevolezza che «pure in un’epoca che si è secolarizzata a vista d’occhio, la filosofia non ha disertato, pur a prezzo di sostituti e surrogati, il luogo in cui si imprime la traccia insanguinata di Cristo». Tutta la filosofia moderna ha costruito la sua impalcatura sul mistero della Croce, persino nella metafisica hegeliana che finisce per perdere di vista il Cristo reale. A questo proposito il volume rievoca la polemica, esplosa a Gallarate nel 1975, fra Tilliette e Cornelio Fabro, assai meno tenero verso Hegel e compagnia.

Ma quali sono i luoghi, gli episodi e i passi del Vangelo che più pongono questioni filosofiche? Per Tilliette si parte dal Prologo di Giovanni per poi passare al Discorso della Montagna, al Venerdì e al Sabato Santo. E ancora: la Tentazione di Cristo nel deserto e i racconti della Resurrezione. Arrivando a san Paolo, il primo vero “filosofo cristiano” nonostante mettesse in guardia i credenti dal non cedere a discorsi vani e puramente intellettuali, s’impongono l’Inno cristologico dei Filippesi e l’Inno alla carità dei Corinzi: in tutti questi casi la filosofia si è costantemente interrogata.

Per Tilliette si tratta di «stabilire il diritto di cittadinanza di Cristo nella filosofia come oggetto filosofico, rispettando la libertà del kerygma». Prendendo a prestito l’espressione “cristologia filosofica” da Henri Gouhier, che l’aveva coniata nel 1961 all’interno del suo lavoro Bergson e il Cristo dei Vangeli, Tilliette non fa altro che ribadire come Gesù rimanga sempre una pietra d’inciampo, anche per il pensiero. «Conviene che la filosofia – egli ha scritto nel volume La settimana santa dei filosofi – si arresti alla soglia delle apparizioni. Oltrepasserebbe i suoi diritti se si appropriasse dei doni della grazia e delle meraviglie soprannaturali della fede. Occorre mantenere castamente la frontiera. Ciò non impedisce al filosofo di avere gli occhi fissi sul dramma divino e di inserirvi la sua meditazione sul male, la sofferenza e la morte, Anch’egli può iscriversi alla scuola austera del cristianesimo». Una sensibilità che l’accomunava a von Balthasar (si pensi ai suoi studi sul Sabato santo e sull’Inferno) e a Luigi Pareyson, che tra i filosofi italiani del dopoguerra rappresentò per Tilliette un interlocutore privilegiato.

Peccato che nel volume di Stancampiano non abbia trovato spazio, almeno in appendice, quello che può essere considerato l’ultimo scritto di padre Tilliette, il suo vero e proprio testamento spirituale e che si può ritrovare nel libro Confesiones de Jesuitas, una raccolta di scritti dei più importanti gesuiti del ’900 (fra i quali il cardinale Martini) da poco uscita in Spagna a cura di Valenti Gòmez-Oliver e Joseph Benitez. Rispondendo a un questionario, Tilliette ha preferito inviare un testo uniforme e compiere un bilancio della propria esistenza, definendosi «uno degli ultimi rappresentanti della tradizione umanistica della Compagnia che hanno illustrato il XX secolo: i padri Louis de Grandmaison, Henri de Lubac, André Blanchet, François Varillon.... Ho vissuto cercando di imitarli, sforzandomi di essere, a un livello più modesto, il loro continuatore e, per i tre ultimi, di ripagare la loro benevolenza al mio riguardo».

Tilliette guarda poi con distacco ma con enorme preoccupazione a quella che definisce «la crisi del maggio ’68». Ecco cosa scrive: «L’ho vissuto molto male. È associata per me al ronzio degli elicotteri ed al baccano della strada. Allora gli studenti persero una bella occasione per tacere e la febbre di Michel de Certeau mi sembrò irragionevole. Si assisteva al tracollo di un’istituzione venerabile, l’Università, e, di rimbalzo o contraccolpo, allo sfaldamento della Compagnia di Gesù nelle sue case di formazione. Nella mia ingenuità, avevo creduto che un’istituzione rigida e molto organizzata come l’ordine di S. Ignazio fosse ben preparato a resistere alle sirene della dissipazione e della frivolezza. Ahimé, non lo fu per niente, e il contagio mondano, la follia studentesca, contagiarono il suo cuore».

Alla fine, nonostante le amarezze provate, così conclude: «Mi trovo sfasato, antimoderno. Non è responsabilità di nessuno e non incolpo nessuno, ma resisto nel mio angolo e mi sforzo di riempire il poco tempo che mi resta, tempus instanter operando redimentes. Ricomprare il tempo, è una bella formula. La terra è solamente un passaggio, e il vero filosofo ricusa il nichilismo. Ho frequentato troppo Gabriel Marcel per dimenticare la sua lezione sulla speranza. Il pensiero del Cristo mi tormenta, e io non vorrei finire senza averlo approfondito di più».

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