venerdì 26 aprile 2024
A trent'anni dalla morte colpisce ancora la fede di Senna, spesso fraintesa e fonte di critiche, eppure mai nascosta. Consapevole fino all'ultimo di essere assistito dall'alto.
Ayrton Senna, leggenda della Formula 1, scomparso il 1 maggio del 1994 dopo un incidente sul circuito di Imola

Ayrton Senna, leggenda della Formula 1, scomparso il 1 maggio del 1994 dopo un incidente sul circuito di Imola - Sutton Motorsport Images

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«Nada pode me separar do amor de Deus» («Nulla mi può separare dall’amore di Dio») così c’è scritto sulla sua lapide al cimitero di Morumbi in Brasile. Può sembrare un paradosso iniziare dalla fine, ma è proprio la frase sulla tomba di Ayrton Senna, il miglior punto di partenza per riscoprirne la sua leggenda. Il pilota sudamericano non è stato solo un fuoriclasse della Formula 1, ma anche un campione oltre lo sport. La sua tragica scomparsa, il 1 maggio del 1994 a Imola, è stata scioccante non solo per il popolo brasiliano ma per il mondo intero. Del resto se a trent’anni di distanza il suo ricordo è più vivo che mai vuol dire che è rimasto intatto il fascino per un fenomeno delle corse così diverso dai suoi colleghi. Ripercorrere le sue orme è davvero sorprendente. Tra i tanti libri in uscita, quello della giornalista Giulia Toninelli Ayrton Senna. Occhi feroci, occhi bambini (Lab DFG, pagine 192, euro 18, prefazione del pilota Andrea Kimi Antonelli) si legge tutto d’un fiato. Appassionante come un romanzo, ci riporta ai primi passi del piccolo Ayrton, nato a San Paolo il 21 marzo del 1960 da Milton Da Silva e Neide Senna (volle mantenere sempre il cognome della madre). E dire che fino ai tre anni fece preoccupare non poco i suoi genitori perché non cresceva: un incedere lento e dondolante che gli valse anche il nomignolo di “Beco”. La svolta a quattro anni quando sprizzava già energia da tutti i pori e mise per la prima volta le mani su un volante: un piccolo kart costruito da suo padre. La sua epopea cominciò allora, il bambino ossessionato dalla velocità arriverà a conquistare tre titoli mondiali in dieci anni di Formula 1.

Un uomo dal grande carisma, ma pronto a riconoscere le sue debolezze. L’amore per la sua famiglia, gli amori difficili e l’affetto della sua gente hanno scandito la sua esistenza. Si sentiva un privilegiato, figlio di una famiglia benestante in un ambiente dove bastava girare l’angolo per toccare con mano la miseria. Per questo donava segretamente a chi ne aveva bisogno. Un’eredità raccolta dall’Istituto Ayrton Senna che ha aiutato già oltre 34 milioni di studenti. Se c’è però qualcosa di cui non si dirà mai abbastanza e che stupisce chiunque intenda scavare nella biografia dell’asso brasiliano è la sua spiritualità. Lo spiegò anche Manish Pandey scrittore e produttore del toccante film documentario del 2010 “Senna” di Asif Kospadia: «Ayrton era un cattolico devoto. Cosa che nessuno di noi condivideva, né Asif (musulmano), né James, l’altro produttore (cristiano) né io (indù). Eppure sentivamo profondamente che la storia di Ayrton sarebbe stata incompleta senza questo pilastro monumentale della sua vita: un pilastro sul quale si è retto che spesso è stato frainteso e utilizzato come una mazza per sconfiggerlo dai cinici avversari e dalla stampa… Ciò che lo feriva di più erano le critiche pungenti secondo cui, poiché credeva in Dio, lo rendeva in qualche modo invulnerabile o immortale».

Una fede non ostentata ma mai nascosta, maturata in pista: non però nei successi bensì nei fallimenti. Come a Monaco nel 1988 quando per un errore banale buttò via la vittoria. Fu proprio in quella circostanza che si sentì toccato dall’alto: «Non è stato solo un errore di guida. L’incidente è stato solo un segno del fatto che Dio era lì ad aspettarmi per darmi la mano». Una Presenza che riconobbe anche in fondo al rettilineo a Suzuka quando si laureò campione del mondo per la prima volta: «Ho visto Dio. Una sensazione indescrivibile». Il 1 maggio del 1994 Senna non voleva più correre, la morte il giorno prima di Ratzenberger su quella stessa pista lo aveva scosso. Quell’ultima mattina però si svegliò e aprendo la Bibbia a caso come faceva spesso lesse un testo – spiegò poi sua sorella Viviane – in cui capì «che avrebbe ricevuto il dono più grande di tutti: Dio stesso». Andò dunque incontro al Destino con la consapevolezza di chi si sente comunque al sicuro. Un biglietto fu trovato dentro la tuta dopo la sua morte. C’era scritto: «Nessuno mi può togliere l’amore che Dio ha per me».

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