giovedì 27 agosto 2015
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Le istituzioni universitarie, considerate un’innovazione fondamentale alla base della cultura europea moderna, si andarono diffondendo a partire dall’XI-XII secolo non tanto sulla base di uno sviluppo degli "studia" abbaziali e vescovili altomedievali, quanto su quella di una considerazione nuova della cultura: una considerazione, per così dire, “commerciale”, che considerava il sapere come una qualunque merce pregiata. In particolare, l’"universitas studiorum"si comportava come una qualunque organizzazione corporativa (tale il significato del termine "universitas") costituita da “operatori commerciali” sui generis, che vendevano (i "magistri") o compravano (gli "scholarii") il sapere come si acquista un bene al mercato. Ora, nulla di tutto ciò somiglia alle istituzioni scolastiche greche o latine, che ignoravano un principio del genere del resto disadatto alla loro organizzazione civile (e straordinariamente opportuno invece nelle strutture dell’Europa medievale). Fu nella Baghdad califfale del secolo IX che una tale istituzione, detta Bayt al-Hykma (“Casa della Sapienza”) – originariamente una biblioteca pubblica – si andò affermando, mentre le prime istituzioni in tale senso chiaramente documentabili si hanno a al-Qarawiyyin nell’attuale Marocco nonché in quella cairota, famosissima, di al-Azhar. Questo tipo d’istituzione, celebre e fiorente in tutto il mondo musulmano, fornì l’idea di base alla quale attinsero i primi studiosi che sistematicamente importarono il sapere musulmano: primo fra tutti un monaco benedettino che avrebbe studiato nella Spagna meridionale saracena nella seconda metà del X secolo prima di divenire collaboratore del giovane, dotto imperatore Ottone III di Sassonia e alla fine papa col nome di Silvestro II. Si tratta del grande Gerberto di Aurillac, una mente geniale di altezza leonardesca. Oggi, su questi temi esiste anche una letteratura non esclusivamente scientifica eppure affidabile che potrebbe essere utilmente consultata. Mi limito a citare, tra le cose più recenti, il libro "Aladdin’s Lamp" dell’americano John Freely (edito a New York dalla A.A. Knopf nel 2009) che porta il significativo sottotitolo, che qualcuno troverà sconvolgente, “Come il sapere dell’Antichità tornò all’Europa”. E ci tornò attraverso l’islam. Si è tornati di nuovo ai giorni d’oggi, e a quel che sembra senza la serenità e la preparazione che sarebbero necessarie, a parlare di “conflitto di civiltà”: e a sopravvalutare invasioni, incursioni e scontri militari dimenticando invece (o, spesso, semplicemente nascondendo) quel che in passato ha unito civiltà troppo sbrigativamente considerate diverse quando non addirittura “nemiche” e il loro debito reciproco nella rispettiva definizione. In tale contesto, si è tornati a tracciare una storia divulgativa e demagogica dei rapporti tra Europa e islam come tessuta di una serie infinita ed esclusiva di scontri: Poitiers nel 732, poi le crociate, quindi Lepanto nel 1571, e infine Vienna nel 1683. Episodi guerrieri volta per volta isolati dal loro contesto e presentati come tappe di un duello permanente, di una lotta senza quartiere. Se vivessimo ancora in un tempo nel quale la cultura seria, quella sostanziata di ricerche metodologicamente fondate, valesse qualcosa – un tempo che ha pur presieduto, tra Otto e Novecento, alla costruzione di quell’identità europea nella quale le università e le accademie rivestivano un pubblico ruolo che gli stati valorizzavano e sostenevano –, la volgarità di certe mistificazioni pseudostoriche sarebbe stata messa da tempo a tacere, con vantaggio non solo per la nostra vita intellettuale, ma anche per il dibattito politico. Ma dal momento che ciò è al giorno d’oggi improponibile, noi assistiamo a una tragicomica dicotomia: a livello della storia scientificamente indagata e seriamente ricostruita è notissimo non solo che le civiltà cristiane, sia euro-occidentale che bizantina, molto si giovarono dei rapporti economico-commerciali, culturali e diplomatici con le potenze musulmane finché l’espandersi del colonialismo europeo non travolse lo stesso islam; mentre a livello mediatico e nelle varie vulgate storico-politiche circolanti, scompaiono i rapporti commerciali, le reciproche influenze nel campo delle scienze, delle lettere e delle arti, gli stretti legami diplomatici e umani che pur tante tracce hanno lasciato perfino nei monumenti e nei linguaggi (basti pensare agli arabismi nei dialetti italici e iberici), sostituiti da un’immagine di scontri costanti e continui che non hanno giustificazione alcuna nella storia concretamente ricostruita la quale ci parla invece il linguaggio di una costante convivenza punteggiata di episodi guerrieri magari feroci e frequenti, mai comunque tali da veramente comprometterla. Tale verità risulta con speciale evidenza quando si consideri il valore dei rapporti scientifici e culturali, rispetto ai quali – non diversamente di quanto accadeva per le merci – la bilancia commerciale continuò molto a lungo, tra X e XV secolo, a pendere dalla a favore dell’Oriente musulmano. In particolare, il grande pubblico continua a ignorare quel che invece ormai da molti decenni è chiaro al livello della ricerca: il sapere dell’antichità romano-ellenistica, che nel mondo occidentale del medioevo era andato perduto tra VI e VIII-IX secolo, fu gradualmente recuperato tra X e XIII grazie ai rapporti tra islam ed Europa. In particolare furono i testi filosofici e scientifici redatti nell’Antichità in greco e tradotti dall’arabo, dal persiano e dall’ebraico, che penetrati nel mondo soprattutto iberico (ma, in misura minore, anche in Sicilia e nella Siria-Palestina crociata) a riportarci la cultura classica cui si aggiunsero i portati del sapere astrologico-astronomico, chimico-alchemico, geografico e medico di provenienza indo-persiane e perfino cinese, che in tali campi disponevano di conoscenze migliori che non gli antichi Greci. E tutto ciò risalta, in modo speciale, nella storia delle università.
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