giovedì 10 ottobre 2019
Il libro, “Un calcio al razzismo”, parte dalla passione per il calcio di Primo Levi e dalla formazione degli ebrei romani per arrivare a denunciare gli episodi da ultimo stadio dei giorni nostri
Mario Balotelli in visita ad Auschwitz-Birkenau durante gli Europei di Russia e Polonia 2012

Mario Balotelli in visita ad Auschwitz-Birkenau durante gli Europei di Russia e Polonia 2012

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C’è un filo sottile che lega questa storia di calcio e Shoah, tratta dal libro di Massimiliano Castellani e Adam Smulevich Un calcio al razzismo. Venti lezioni contro l’odio( Giuntina. Pagine 96. Euro 10,00), con i recenti episodi di razzismo che hanno colpito giocatori di colore della Serie A, come il nuovo attaccante del-l’Inter Lukaku e il viola Dalbert. Un libro che è rivolto in primis ai giovani e poi a quegli adulti che hanno smesso di allenare la “memoria”. Attraverso le varie storie di “sommersi e salvati” del pallone di questo libro, si può comprendere il valore del rispetto e delle regole fondamentali della convivenza civile, che pongono sempre in fuorigioco l’odio e il razzismo. Di questo i due autori parleranno in un incontro (modera Valerio Calzolaio) oggi alla 9ª edizione di “Overtime. Il Festival di chi allena il corpo e la mente” - al Teatro della Filarmonica di Macerata . Una cinque giorni ricca di eventi di altissimo livello la kermesse ideata dai fratelli Michele e Angelo Spagnuolo. Il programma completo della rassegna al sito: www.overtimefestival.it

Sochi, Russia. È l’estate del 1945, quella del ritorno alla normalità. Uscito scheletro da Auschwitz pochi mesi prima, il romano Piero Terracina indossa la divisa dei suoi salvatori. Vogliono in campo anche lui, l’italiano restituito alla vita. Il fiato scarseggia e le condizioni fisiche sono ancora precarie. Ma i pochi minuti giocati, per il diciassettenne Piero, sono sufficienti per riassaporare il ricordo delle tante partite disputate nel corso dell’infanzia. È il calcio ad alimentare la speranza nel futuro, anche nei mesi trascorsi nel lager: come racconterà anni dopo, recitare la formazione dell’Italia campione del mondo nel ’38 e della Roma scudettata del ’42 lo aveva aiutato a non perdere il senno. Accanto al suo amico e compagno di prigionia Sami Modiano e ad Anna Weiss accoglierà poi la nazionale di Cesare Prandelli in visita in quegli stessi luoghi, pochi giorni prima dell’inizio degli Europei di Polonia e Ucraina. È il giugno del 2012, Piero ha alle spalle ormai diversi Viaggi della Memoria. Quella visita ha però un sapore speciale, non lo nasconde. Perché lui sa il bene che può fare lo sport, quando non è usato come strumento per dividere. Qualcuno da lui avrebbe pure da farsi perdonare uscite fuori luogo. Come Gianluigi Buffon, di cui non si ricordano soltanto le grandi parate ma anche un «Boia chi molla» che fece scandalo. Piero però ha una buona parola per tutti, un incoraggiamento, un buffetto. Il portiere della Juventus uscirà anche lui in lacrime da quell’esperienza, fortemente voluta dal commissario tecnico. Si aggrappava con intensità alla forza del calcio anche Alberto Mieli, che fu catturato nel febbraio del 1944 e spedito dal carcere di Regina Coeli ad Auschwitz.

Nella capitale, nell’immediato dopoguerra, fu tra gli artefici di un’impresa sportiva dal valore simbolico incommensurabile. Si chiamava Stella Azzurra - la Stella era quella di Davide, naturalmente - e fu una delle prove più evidenti della voglia di questa Comunità, piegata dalla Shoah, ma non definitivamente annichilita, di riaffacciarsi al mondo. Di lasciare un segno della sua esistenza anche attraverso un’esperienza solo apparentemente banale, come quella di una squadra di calcio che scaldava i cuori in prima istanza degli ebrei di Piazza: i romani, romanissimi ebrei del Portico d’Ottavia. «Il calcio? Mi ha aiutato a ripartire, a guardare con una luce diversa al futuro. Anche se certe ferite non le ho mai dimenticate. D’altronde – sosteneva Mieli – dopo aver visto l’inferno, come avrei potuto?». L’appuntamento era all’impianto Bruno Buozzi, a Trastevere, scenario di partite all’ultimo sangue nei tornei minori capitolini. «C’era un significato speciale in quello che facevamo. Ma in quel momento – si emozionava – pensavamo soltanto a vincere. E nel nostro piccolo ci riuscimmo. Giocavamo bene, in modo armonico. Sempre all’attacco ». Giovani e volenterosi. Tra loro anche qualche atleta notevole. La Stella Azzurra è stata infatti il trampolino di lancio per uno dei compagni di Mieli: Giovanni Di Veroli, detto Ciccio, che dal ’52 al ’58 ha vestito la maglia della Lazio. Decisivo per il grande salto fu proprio un allenamento con la Stella Azzurra durante il quale, come ha ricostruito Fabrizio Sonnino, storico animatore della Coppa dell’Amicizia, colpì un osservatore della compagine biancoceleste.

«Dopo poco più di un quarto d’ora della partitella, nella quale aveva segnato anche una rete, fu invitato ad uscire dal campo, dal tecnico che arbitrava, per andare a parlare con il signor Speranza. Giovanni inveì e prese a male parole il suo interlocutore, pensando di essere stato scartato. Forse – sostiene Sonnino – il cognome della persona che gli fu indicata gli apparì come un’allusione». Una beffa insomma. Tu continua a sperare che il momento arriverà. Invece l’inviato della Lazio, calmandolo a fatica, gli disse: «Di Veroli, per noi basta così, ti prendiamo! ». Curioso, in una realtà a forte trazione giallorossa, che il mito di Piazza abbia difeso i colori della Lazio. Colori che la giovane mezzala della Stella Azzurra ai tempi del Ciccio laziale mai si sarebbe sognato di indossare. «Sono romanista doc» dichiara il rabbino Vittorio Della Rocca. Molto vicino ad Elio Toaff di cui fu per anni collaboratore, da ragazzo si attirò le ire bonarie dell’allora rabbino capo David Prato. Il suo maestro era infatti contrario al fatto che uno studente avviato a una carriera rispettabile come quella di leader spirituale perdesse tempo dietro un pallone. È un figlio della Shoah, rav Vittorio. Fu proprio Mieli, tornando a Roma dal lager con in dote un tatuaggio sul braccio, a dargli la notizia che suo padre Rubino era rimasto ucciso ad Auschwitz. I suoi occhi avevano visto, inutile alimentare false speranze nel giovane Della Rocca. Merito anche del padre se il calcio lo aiutò a superare almeno in parte il trauma. Fu infatti Rubino, abbonato della prima ora all’As Roma, a spingerlo verso i giallorossi. Passione che lo salvò dall’emarginazione anche nel periodo delle leggi razziali.

Prima a Campo Testaccio, dove Vittorio trovò una zona franca. E poi allo Stadio Nazionale, dove festeggiò il primo titolo della sua squadra del cuore. Nel 1946, con la ferita che ancora pulsava per la scomparsa di papà Rubino, diventò bar mitzvà (la maggiorità religiosa). Fu un amico di famiglia a fargli il regalo dei sogni: una trasferta pagata per seguire la Roma a Firenze. In gioventù anche Alberto Sed, sopravvissuto pure lui ad Auschwitz, giocava nel segno del Fornaretto. «L’Amadei ebreo », così lo avevano soprannominato da ragazzo per le sue qualità. Tanto che, trovatosi una volta di fronte all’eroe di oggi, Francesco Totti, non si è trattenuto: «Senza le persecuzioni sarei stato più forte di te» gli ha detto, incontrandolo in Campidoglio. Ma Sed ha anche un altro messaggio e ha voluto diffonderlo anche attraverso i canali ufficiali della As Roma lo scorso 25 Aprile: «A un certo punto ognuno c’ha una religione, però tutti abbiamo un Dio. E a tutti piace giocare e vedere il pallone. Allora già siamo uguali».

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