sabato 9 maggio 2015
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C’era una volta il Giro d’Italia. Una corsa di biciclette che ha attraversato il Paese e il secolo delle grandi invenzioni e delle grandi guerre. È partita dal motore a scoppio per arrivare nel mondo virtuale di internet. In cento anni tutto è cambiato intorno alla corsa, solo il suo spirito è rimasto lo stesso. Quello spirito d’avventura e incoscienza con il quale 127 ciclisti si ritrovano in piena notte in piazzale Loreto, a Milano, il 13 maggio 1909. Una fauna indistinta di campioni già affermati - in quelle prime pioneristiche gare tra fine Ottocento e inizio Novecento - e aspiranti corridori attratti dai cospicui premi messi in palio. Ci sono perfino cinque stranieri: 4 francesi, già rodati dal Tour, e un austriaco, fra questi Petit Breton, che ha vinto due Tour e in Italia ha già trovato fortuna inaugurando l’albo d’oro della Milano Sanremo. Indossano pesanti maglie di lana grezza strette da un paio di copertoni intrecciati sulle spalle. Cavalcano bici pesantissime sulle quali è legata una borsa di cuoio con l’indispensabile per sopravvivere sulla interminabile strada che li separa dall’arrivo della prima tappa a Bologna. Il via viene dato alle 2.53, in piena notte, per essere sicuri di arrivare prima del tramonto. A scortare il gruppo ci sono otto automobili, cariche di persone e bagagli: due sono per gli organizzatori, due per i giornalisti e quattro per le squadre. Lungo le salite i passeggeri sono costretti a scendere e talvolta a spingere il mezzo mentre i corridori li sorpassano. A Milano torneranno in 49. Per i superstiti ci sono quasi 70mila lire di premi da dividere. La somma maggiore spetta al vincitore, Luigi Ganna, che ne intasca poco meno della metà. Una cifra astronomica che contribuisce ad alimentare il fascino della corsa, basta pensare che un operaio guadagna appena 100 lire al mese, il doppio di un bracciante agricolo. All’improvviso il ciclismo diventa il mezzo più rapido per scappare dalla miseria, basta avere gambe robuste, polmoni sani e tanta tenacia. L’America la si può trovare anche in Italia e la miniera d’oro nascondersi nella cavità degli spessi tubi d’acciaio della bici. Il ciclismo comincia a forgiare miti che vanno ad alimentare la fantasia popolare. Il Giro d’Italia diventa l’Odissea del XX secolo, un poema raccontato in presa diretta dai giornalisti, i cantori della modernità. I corridori sono i nuovi eroi omerici che combattono a colpi di pedale lungo le strade polverose del Belpaese. C’era un volta il Giro d’Italia. E c’è ancora. Anche se le bici sono avveniristici mezzi in carbonio e i ciclisti non sono più diseredati in cerca di fortuna. La magia della corsa è rimasta intatta, così come quello spirito di avventura incarnato dai corridori che si vedono sfrecciare sull’asfalto avvolti in una scia multicolore. Una favola anacronistica che continua ad essere narrata con la stessa enfasi da oltre 100 anni e seguita con la stessa passione dalla gente. Una gara che arranca, come nel passato, sulle montagne, a dispetto di un mondo che va sempre più veloce, capace di navigare in tempo reale sulle autostrade informatiche da un borgo europeo a un villaggio australiano. Ogni anno a maggio il ciclismo ritrova la sua essenza, riallaccia il filo con la storia e richiama milioni di persone ai bordi delle strade. E non importa sapere chi è primo o chi è ultimo, distinguere il campione dal gregario: la giuria popolare applaude tutti con la stessa enfasi. È la grande democrazia della strada. E non importa nemmeno se il passaggio della corsa dura solo un attimo, è quanto basta per accendere la fantasia dello spettatore e trascinarla via risucchiata dal vortice della carovana. È la festa del Giro d’Italia. È la festa di maggio.
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