giovedì 3 novembre 2016
Ne "La scuola della felicità" Gian Mario Villalta mette in scena i paradossi di una didattica che pretende di trasformarsi in ingegneria del benessere
Una scena del film di ambientazione scolastica "Class Enemy" (2014): opera prima del regista sloveno Rok Bicek

Una scena del film di ambientazione scolastica "Class Enemy" (2014): opera prima del regista sloveno Rok Bicek

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Non credo esista una nazione europea, negli ultimi trent’anni, che abbia dedicato al mondo scolastico un’attenzione letteraria così alta com’è avvenuto in Italia: fatto che, se vogliamo, sta implicitamente a rafforzare la percezione d’una situazione in perenne stato di emergenza. Sto parlando della storia del romanzo, ovviamente, ma anche di quella del saggio non scientifico, ad alta vocazione narrativa, a cominciare da quei piccoli classici che sono ormai i libri di Domenico Starnone – mettiamo l’esordio di Ex cattedra (1987), Sottobanco (1992) e Solo se interrogato (1995), per arrivare sino a La scuola raccontata al mio cane (2004) di Paola Mastrocola. Per non dire, dentro il genere del romanzo, di quelle eccezioni di disposizione e stile che più brillano come, per esempio, L’esame di maturità (1995) di Aurelio Picca o quel resoconto d’un anno di insegnamento in carcere che è Maggio selvaggio (1999) di Edoardo Albinati.

Anche Gian Mario Villalta, insegnante da sempre, uno dei nostri narratori più appartati e sicuri (ma anche poeta, critico e studioso di rango) si confronta ora col tema in un libro dal titolo assai significativo, e cioè Scuola di felicità: a completare quel percorso di autobiografia dell’ombra, se così si può dire, già in atto dal suo primo romanzo, il fortunato Tuo figlio (2004). Ne è protagonista, nell’anno scolastico 2013-14, un professore di materie letterarie non ancora cinquantaquattrenne, vedovo e ricco, quando è vero che la cospicua eredità ricevuta in morte della consorte gli consentirebbe di non lavorare, se non fosse che, come scopriamo molto presto, la routine dell’insegnamento gli è necessaria, come un corrimano su cui appoggiarsi, per non perdere del tutto l’equilibrio.Dicevo del significativo titolo, che ha una sua declinazione da falansterio alla Fourier, in vista d’una felicità obbligata e pianificata, per docenti e studenti (nessuno escluso), e che, tradotta entro una certa idea di programmazione didattica, si carica di riflessi da stupidità concentrazionaria e, per così dire, totalitaria: intendo il totalitarismo di talune pedagogie da progressismo burocratico. A volerla, questa «Scuola della Felicità», è il nuovo Dirigente scolastico Lisa Bardella (un’importante e frustrata esperienza politica alle spalle), colei che parla meglio di tutti il nuovo linguaggio scolastico manageriale-ministeriale, che lo sa interpretare alla perfezione, abilissima com’è nei rapporti coi mass-media, convinta che a scuola – anche e soprattutto per salvare i posti di lavoro – si possa parlare di «Fil», e cioè di «Felicità interna lorda», per salvaguardare la quale occorra rapportarsi proficuamente con istituzioni e enti finanziari.

Un progetto che ha come conseguenza quella di promuovere una contrapposizione tra gli studenti: i «Benesserini», quelli che approvano la rivoluzione del Dirigente, e i «Marci», che invece si ribellano. Bisognerà aggiungere che il nostro docente, pochissimo incline alla codificata socializzazione tra colleghi, è uno di quelli che rilutta, che insomma non accetta di sostituire il termine «interrogazione» con l’espressione «unità didattica di verifica delle conoscenze attraverso il dialogo formativo». Non è, però, uno di quelli che contestano: mira, invece, ad aprire, dentro il tempo della routine alienata, un contro-tempo tutto per sé, in cui conta anche la decisa volontà di farlo bene, quel lavoro. Il suo rapporto con gli studenti oscilla – mettiamola così – tra l’entomologia e l’empatia. Per un verso, infatti, il suo atteggiamento è di distacco infastidito: «Sudori, aliti, ormoni di diciassettenni in pieno stress da pi greco». E con una vocazione al catalogo, testimoniata da quell’abitudine a costruire sul cognome di ognuno degli studenti un nomignolo, che finisce per caratterizzarlo. Ma questo dentro una lucidità irrevocabile: «Etologia elementare: un branco. Io invece di altra specie, e solo».Detta così, sembrerà che io voglia ridurre il romanzo a una specie di critica della ragion scolastica. Che tale è: e sempre con esiti di esilarante understatement. Epperò, il libro di Villalta non si riduce a questo, raccorda invece questa sua disposizione saggistica e critica a strategie narrative che ne esaltano subito il carattere di detection. Ho detto prima che, nel suo lavoro di professore, il nostro protagonista pratica l’empatia accanto all’entomologia. Se così non fosse, il suo alunno Giani non si sarebbe mai sognato di telefonargli alle undici di sera per chiedergli aiuto, implorandolo persino di raggiungerlo in un posto asperrimo, per soccorrere il suo compagno Bedin che sta male.

È questo l’episodio che funge da motore romanzesco: e che di fatto costringe il professore (e lo scrittore Villalta che gli sta alle spalle) ad abbandonare la predisposizione facilmente notomizzatrice, per strategie di interpretazione della realtà più complesse: quelle che gli consentiranno di mettere a sistema, col lettore, fatti che non sono più dettagli, ma indizi. Posso dire che c’è in gioco – un gioco eversivo – «un sistema segreto di affiliazione» tra gli studenti? E che tutto condurrà al filosofo Fabio Cinque? Posso dirlo perché non annullo nessun diritto alla sorpresa: che resta sacrosanto per il lettore. Per scoprire che l’obiettivo di Villalta non è solo la scuola, ma anche una riflessione sui buoni e sui cattivi maestri

Gian Mario Villalta. Scuola di felicità. Mondadori. Pagine 186. Euro 18,00

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