lunedì 8 aprile 2013
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Quando gli amici che hanno organizzato questo colloquio mi hanno comunicato il titolo della sessione entro cui io avrei dovuto dare una testimonianza ed ho saputo che il titolo era “Cultura per vivere”, mi sono domandato se il titolo non dovesse essere ancora più estremo, ad esempio qualcosa come “Una cultura per respirare”, proprio nel senso del respiro che esce dai polmoni. L’“essere di più” di cui parla Giovanni Paolo II nella sua allocuzione all’Unesco (2 giugno 1980), letto nel suo nucleo più caritatevole, più caritativo, ma anche più drammatico, non significa essere in quanto pensare, in quanto respirare? Dobbiamo porci questo interrogativo noi, in questa specie di civiltà in cui abbiamo lasciato o voluto che molti uomini, molti giovani scegliessero di non pensare più, anzi di non respirare più, scegliessero il suicidio o la morte! Nell’allocuzione del Santo Padre all’Unesco, che è fondata sulla speranza e nella speranza, non si può non leggere un allarme terribile, tanto più terribile quanto più è grande la speranza che la percorre, e anzi che costituisce l’interrogazione prima, rivolta attraverso quella sede a tutti gli uomini di cultura e a tutti gli uomini del mondo. Basterebbe leggerne due frammenti: «Queste società (di civilizzazione tecnica) si trovano davanti la crisi specifica dell’uomo, che consiste in una mancanza crescente di fiducia nei confronti della propria umanità, del significato del fatto di essere uomo e dell’affermazione e della gioia che ne derivano e che sono sorgente di creazione. La civiltà contemporanea tenta d’imporre all’uomo una serie di imperativi apparenti, che i loro portavoce giustificano ricorrendo al principio dello sviluppo e del progresso. Così, per esempio, al posto del rispetto della vita l’"imperativo" di sbarazzarsi della vita e di distruggerla…». Più avanti questo allarme si fa ancora più esplicito: «Ci rendiamo conto… che l’avvenire dell’uomo e del mondo è minacciato, radicalmente minacciato, a dispetto delle intenzioni, certamente nobili, dell’uomo di cultura, dell’uomo di scienza. Ed è minacciato perché i meravigliosi risultati delle sue ricerche e delle sue scoperte, soprattutto nell’ambito delle scienze della natura, sono state e continuano ad essere utilizzate – a pregiudizio dell’imperativo etico – per dei fini che non hanno niente a che vedere con le esigenze della scienza e persino a fini di distruzione e di morte, e questo ad un grado mai conosciuto fino ad oggi, causando dei danni veramente inimmaginabili. Allorché la scienza è chiamata ad essere al servizio della vita dell’uomo, si constata troppo sovente che essa è asservita a scopi che sono distruttori della vera dignità dell’uomo e della vita umana». Di fronte a queste parole, che danno un’immagine giusta, lucida, dell’estrema situazione in cui la società è giunta, mi domando quale sia la funzione della cultura se non quella di arrivare al luogo da cui prevengono questi "imperativi apparenti". Mi domando se la prima funzione della cultura non sia quella di snidare il meccanismo che ci invia questi "imperativi apparenti", e di vedere perché, a dispetto delle intenzioni, quindi nonostante le buone intenzioni, il risultato non sia per la vita ma per la morte. [...] La cultura, e tanto più la cultura cristiana, non può non accusare, non può non indicare questo misterioso ma terribile, insinuante luogo. Questa misteriosa, terribile, insinuante entità che ci manda i suoi apparenti, ma poi reali ricatti, abita in un meccanismo; ormai non è più neppure il caso di parlare, credo, di ideologia. Le ideologie sono cadute, sono uscite dalla mente, dal corpo, dalle ossa delle persone e dei popoli che le avevano costruite e hanno creato su questi popoli, su questi uomini una sorta di mostruosa entità chiamata con due termini uguali: il potere o anche, dobbiamo avere il coraggio di dirlo, l’Anticristo. [...]
L’origine del potere è nell’uomo ritenuta come frutto di un caso. Ed è per giustificare questo caso, per gestirlo, che si instaura il meccanismo del potere – lo stesso potere che poi guida, opprime, deprime, soffoca e trasforma in una galera continuamente condizionata l’essere dell’uomo. La sua origine viene soppressa, sostituita, giustificata con questa trasformazione del caso nel potere, che verrebbe a salvare la casualità della nascita dell’uomo, direi quasi a renderla sostenibile per l’uomo. A questo punto l’uomo è pronto per diventare completamente vittima, cioè per non essere uomo. Ci si domanda allora come può una cultura fare quest’opera di attacco, di snidamento, di continua e instancabile messa in accusa di questo mostruoso meccanismo del potere, se non nascendo e formandosi come creaturalità che deriva, che nasce, come creaturalità che si rende possibile per il riconoscimento che al nostro punto di nascita come uomini non c’è la cecità, non c’è un buio da riempire con un potere, ma c’è una volontà, un amore che ci ha formati. Solo in questa accettazione una cultura d’attacco sente la necessità di essere anche una forma, cosa di cui il potere ha paura. Ciò di cui ha paura il potere, e lo si vede anche qui da noi, è dell’uomo che esce dall’intimità o trasforma l’intimità in gesti, in azioni, in forma. Allora si scende sulle strade e si pesta, si ferisce, si colpisce. Allora si mettono le museruole, si impediscono le parole, perché proprio questo riconoscimento di essere creature determina nella cultura d’attacco, come deve essere la nostra, una cultura assolutamente non tranquilla, anche se serena, determina una forma che si oppone a questo meccanismo di potere. Quindi la negazione dell’uomo, che si sta compiendo, la negazione perfino del respiro dell’uomo, non può avvenire senza che questa forma di vita, questa proposta di cultura non assuma tutta la forza, la pregnanza che assume un figlio, che assume un feto quando Dio decide che sia uomo. La cultura deve avere questa irrefutabilità, si deve sapere che se si uccide questa forma di cultura si uccide l’uomo, esattamente come si deve sapere che se si uccide un feto, piccolo, ancora apparentemente senza forma, si uccide un uomo e quindi si scinde, si stacca, si nega quella volontà originale. [...]
La nostra croce oggi è terribile: è evitare questo scontro o questo incontro, questo attraversamento della tragicità del momento in cui viviamo, è veramente evitare la croce e assumercene altre che sono sempre più comode. [...] La speranza sta invece nell’assumersi la croce tragica dell’uomo, quindi la speranza è dolce, è tenera, ma è terribile. Non dobbiamo farci illusioni. [...] Questa che ho cercato di esprimere in brevissime parole non è un’ipotesi. Per quello che mi riguarda è ciò che consiste, e sempre è consistita, ma ancor di più consiste la mia vita. E la parola, che Dio mi ha dato in qualche modo il dono e la responsabilità di usare, non ha senso, o sento che la tradisco e che diventa menzogna, quindi servizio di meccanismo e odio all’uomo anche se, "a dispetto delle intenzioni", secondo l’espressione di Giovanni Paolo II, appena la tolgo, per mio proprio comodo, da questo attraversamento del dramma della società di oggi.
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