domenica 27 marzo 2011
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Centocinquant’anni fa gli Stati Uniti iniziavano la sanguinosa guerra civile che tagliò il Paese in due con una linea retta orizzontale: Nord contro Sud. Migliaia di ragazzini nordisti e sudisti corsero ad arruolarsi in quello che credevano sarebbe stato un breve e glorioso conflitto, una lotta fra il bene e il male. Ma la guerra di Secessione durò quattro anni e costò la vita a più di seicentomila soldati, oltre a cinquantamila civili. Un eccidio che divise la nazione per decenni, anche dopo la vittoria dell’Unione, e che al Sud molti ancora vedono come un’occupazione, con l’imposizione di una cultura – industriale, liberal, anti-schiavitù – che non apparteneva alla tradizione locale. Per questo, 150 anni dopo, le celebrazioni dell’anniversario creano imbarazzo. Molti storici rifiutano l’idea che ci sia alcunché da commemorare e temono che forzare una riconciliazione finale, magari permettendo rimembranze nostalgiche della cultura meridionale d’anteguerra, sia come cancellare il sacrificio fatto per eliminare la piaga della schiavitù dagli Stati Uniti d’America. Altri sostengono che sia ora di mettere da parte le divisioni fra i blu (il Nord) e i grigi (il Sud), usando l’anniversario per onorare i morti di entrambe le parti. Le università di Princeton e Yale già lo fanno, elencando senza distinzione nei loro monumenti tutti i caduti della guerra. Harvard, invece, anche quest’anno ha scelto di ricordare solo coloro che diedero la vita in difesa dell’Unione. Altri storici ancora vorrebbero muovere oltre le polemiche, e sottolineano una lettura del conflitto come una mostruosità che si sarebbe potuta evitare, se non fosse stato per gli eccessi e le posizioni estremiste di gruppi ai limiti del dibattito politico. A loro dire, dunque, l’unico elemento che vale la pena ricordare è la necessità di non ripetere lo stesso errore oggi. Le celebrazioni, intanto, sono già iniziate. Il preludio alla guerra, la secessione della Carolina del Sud dall’Unione, è stato ricordato lo scorso 22 dicembre con un grande ballo nel municipio della capitale dello Stato, Charleston. E il 19 febbraio nel campidoglio statale di Montgomery, in Alabama, è stata rimessa in scena l’intronizzazione di Jefferson Davis come presidente della Confederazione degli Stati del Sud nel 1861. In entrambi i casi, le autorità statali si sono tenute per lo più a distanza, cercando di relegare le feste a manifestazioni di folclore locale. Non è così, però, che le vede lo sponsor di questi ed altri eventi. L’organizzazione "Figli dei reduci della Confederazione", che fra i suoi membri illustri conta l’ex presidente Harry Truman e l’attore e regista Clint Eastwood, con le commemorazioni vuole ribadire che fu la preservazione della libertà, e non la difesa della schiavitù (che Abramo Lincoln e il Nord intendevano abolire), il fattore decisivo della decisione del Sud di combattere la «seconda guerra di rivoluzione americana», come la chiamano.Alla luce di questa interpretazione il gruppo giustifica anche l’iniziativa di dedicare le targhe automobilistiche del Mississippi al generale Nathan Bedford Forrest, protagonista delle battaglie decisive della guerra (come il massacro di Fort Pillow, dove morirono trecento soldati neri dell’unità di colore dell’Unione), nonché uno dei fondatori del Ku Klux Klan. Il governatore dello Stato, il repubblicano Haley Barbour, ha però fatto sapere che non ratificherà alcuna legge in quel senso. «La vera natura della ribellione dei proprietari di schiavi che chiamiamo guerra civile non può essere nascosta dai gruppi che la ricordano con nostalgia, perché fu espressa nel 1861 dal vicepresidente della confederazione Alexander Stephens – spiega Jan Ting, della Temple University di Filadelfia –. Stephens disse: "Il nostro nuovo governo è fondato sulla grande verità che il negro non è uguale all’uomo bianco, che schiavitù e subordinazione alla razza superiore sono la sua condizione normale e naturale"». La soluzione cercata negli ultimi dieci anni da molte istituzioni meridionali è di mantenere vivo il ricordo della guerra depurandolo dai simboli potenzialmente razzisti.Il primo è la bandiera della Confederazione, che in buona parte del Sud viene sventolata con un senso di orgoglio regionale. Nella Carolina del Nord come in Georgia, la croce blu in campo rosso punteggiata da tredici stelle compare sui paraurti delle auto, agli eventi sportivi, alle fiere di paese. Eppure, nel timore che offendesse la popolazione afroamericana, nel 2001 la Georgia ha ridisegnato la sua bandiera statale riducendo l’emblema della Confederazione. Sei anni dopo, lo ha rimosso del tutto. L’Università del Mississippi – la stessa dove nel 1962 l’ingresso del primo studente di colore, James Meredith, fu accolto da violenti scontri – nel 2003 ha abbandonato la sua mascotte, "Colonel rebel", che rappresentava un tipico proprietario di piantagioni. E lo scorso novembre un tribunale del Tennessee ha sancito la messa al bando di simboli confederati nelle scuole pubbliche. Passi intrapresi non senza difficoltà da parte di molti meridionali, che hanno la sensazione di essere una specie in via di estinzione. «Emergendo dall’esperienza della guerra civile e della ricostruzione, al Sud c’era un forte senso di orgoglio ferito e di risentimento verso il Nord – spiega James Cobb, storico all’Università della Georgia –; questi sentimenti sono ancora vivi, e spesso è difficile distinguerli da razzismo e intolleranza. Ma sono sempre meno forti e sempre meno diffusi». Il timore maggiore di David Goldfield, autore del libro America in fiamme. Come la guerra civile ha creato una nazione, è invece un altro: che questo rumore di fondo faccia perdere di vista la vera lezione dell’anniversario. «La guerra scoppiò quando il processo politico divenne così polarizzato e così controllato dalle posizioni più estreme, che un compromesso democratico divenne impossibile – dice –. Oggi la nostra politica è meno polarizzata? No».
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