venerdì 18 marzo 2022
Una retrospettiva a Palazzo Reale sull’opera del grande artista di Valencia che per tutta la vita giocò la sua scommessa su una pittura fatta di luce. Esposte le sue celebri marine, ritratti, gruppi
Joaquín Sorolla, “Mia moglie e i miei figli”, 1897-1898 (particolare)

Joaquín Sorolla, “Mia moglie e i miei figli”, 1897-1898 (particolare) - Milano, Palazzo Reale

COMMENTA E CONDIVIDI

Quando ti trovi davanti a un pittore “puro” è il tuo corpo che risponde per te. Non la tua mente. E non senti alcun bisogno di dare a quella pittura una casa, una parentela, una discendenza né una appartenenza, di stile o di movimento: schemi che sono tipici della cultura sviluppata dalla seconda metà dell’Ottocento in poi. Il movimentismo in arte è un riflesso particolare di quello sociale e politico: sodalizi che consentono agli artisti di contrastare l’egemonia accademica. Gli impressionisti – definizione anch’essa canonica ma quanto mai logora – avevano una comune inclinazione dello sguardo, stili personali assai diversi ma accomunati dal dipingere all’aria aperta cercando di vincere col colore ogni separazione netta delle forme nel disegno, in quell’osmosi atmosferica che si mangia i contorni delle cose. Era pittura “pura” anche la loro, reazione ed elaborazione dell’occhio trasmessa alla mano che cerca di dimenticare tutto ciò che l’accademia le ha insegnato. Quando guardi un dipinto di Joaquín Sorolla y Bastida tu avverti subito, anche in quelli che magari possono piacerti meno, che hai sotto gli occhi un prodigio pittorico. Sorolla non ha le capacità di decostruzione della realtà e di ricomposizione della stessa in una realtà più vera che appartiene soltanto all’occhio di Monet; non ha la forza scompositiva della forma che ricrea sulla tela uno spazio più complesso, che era di Cezanne; non ha la raffinatezza quasi estetizzante di Bonnard, né l’eleganza esotica di Matisse; non ha, infine, la capacità di ricostruire con l’occhio prospettive dentro le quali le figure e gli sfondi collimano in una spazialità inedita, che era di Degas; ma ha qualcosa, Sorolla, che gli appartiene con una intensità che è soltanto sua: l’energia ostetrica della luce in sé stessa. La mostra che si è da poco aperta a Palazzo Reale​Joaquín Sorolla Pittore di luce; fino al 26 giugno) è la seconda retrospettiva di un certo peso che si sia fatta in Italia sull’opera di Sorolla (la prima, dieci anni fa, a Ferrara nel Palazzo dei Diamanti). Consuelo Luca de Teno, curatrice della mostra insieme a Micol Forti, si stupisce che Sorolla sia noto come “il pittore della luce” perché, scrive nel catalogo edito da Skira, «ai suoi tempi, l’interesse per la luce era un denominatore comune a tutti i pittori », ma poi subito precisa che probabilmente «lui fu l’unico ad accettare la sfida posta dalla luce violenta del Levante spagnolo con il sole a picco e in piena estate». Dopo di lui, e con altri mezzi e soluzioni, forse in casa spagnola c’è soltanto Picasso. Tuttavia, è in quel-l’aggettivo, “violenta” – che in Sorolla è quasi un’estensione semantica del sostantivo “luce” più che una sua qualità –, che si coagula lo specifico dell’artista valenciano. Intanto si deve ricordare che fin dalle prime visite al Prado, appena quindicenne, Sorolla resta incantato da Velázquez. Io credo che nella sua formazione abbia giocato una parte significativa anche Zurbarán e proprio per la funzione plastica della luce nella rivelazione delle forme. Varie sono le citazioni da Velázquez che si potrebbero isolare all’interno dei quadri di Sorolla – per esempio nella tela Mia moglie e i miei figli, proprio nelle figure dei bambini – e nondimeno ritengo che molta altra pittura spagnola abbia nutrito la sua memoria visiva: dal Greco a Murillo. L’espressione “luce violenta” si traduce una sorta di corpo a corpo che Sorolla ha col sole, con il suo riflesso cangiante sull’acqua, sui muri; i raggi che entrano da una finestra, oppure la luce vista dall’interno di una stanza verso l’esterno che rende le figure come se fossero proiettate su un muro; la luce che filtra dalle fessure di una cabina in La veste rosa (1916), quadro che fa emergere la bellezza sfuggente dei corpi femminili dopo il bagno quasi privando la tavolozza dei neri; la luce che divora i muri e le forme nei bellissimi dipinti che mostrano il Patio dell’Alhambra e il Patio dell’Alberca a Granada, dove è il colore stesso a delineare gli spazi su un piano di astrazione senza togliere niente alla rappresentazione del reale. In Italia Sorolla non ha mai trovato molta attenzione. L’unico a stabilire rapporti con lui fu Vittorio Pica. E nemmeno a Parigi o a Londra ebbe troppa fortuna. La sua fama esplose invece in America dove il curatore della Società ispanica di New York, Archer M. Huntington, gli organizzò nel 1909 una personale nella quale Sorolla espose oltre trecento opere, con un bagno di folla. Fu un successo che lo rese anche ricco. E l’inizio di un tour di mostre che lo portarono a Boston, Saint Louis, Chicago, dove ogni volta espose centinaia di opere (in tutta la sua vita ne dipinse oltre quattromila e un numero imprecisato di disegni). Tre anni dopo la mostra di New York Huntington gli commissionò la decorazione delle pareti della Biblioteca interna alla Società ispanica, un’impresa per vastità, impegno e difficoltà paragonabile agli affreschi di Michelangelo per la Sistina. L’idea era di ricomporre l’anima della Spagna attraverso la rappresentazione delle sue identità regionali (in sedici scene). Un tema che richiedeva anche una lunga preparazione di studio, e infatti la realizzazione occupò Sorolla per sette anni, durante i quali preparò studi e bozzetti a dimensioni naturali: in mostra ne sono esposti due: Tipi de La Manchae Sposa lagarterana. Impresa titanica (illustrata in mostra anche da un filmato), che è un tripudio di figure, ambienti, paesaggi. L’approdo a New York, la città dei grattacieli, ha su Sorolla un effetto straniante. In mostra sono esposte sei gouache su cartone del 1911 accomunate dalla vista sulle strade che avviene sempre da molto in alto, tanto che le figure umane, i mezzi, i monumenti, sono spesso macchie stilizzate, la cui sprezzatura contribuisce a rendere quell’effetto dominante di verticalità prospettica che schiaccia sul piano bidimensionale la rappresentazione dello spazio. Taglio suggestivo che incarna la risposta stilistica dell’artista alla verticalità dello spazio newyorkese. Sorolla è tutt’altro che un pittore spontaneo o impulsivo. Ha ruminato parecchio l’arte dei musei. Per conoscere le ultime ricerche pittoriche va a Parigi quando ormai gli impressionisti si sono sciolti come gruppo, ma lui ha modo così di conoscere meglio anche il punto d’arrivo di un movimento di fronte al quale, come giustamente osserva Consuelo Luca de Teno, egli non si lascia condizionare dimenticando la lezione del disegno e della resa plastica delle forme che ha appreso in Spagna. Durante il viaggio a Londra vedrà i marmi del Partenone e anche questo lascerà un segno indelebile nella sua memoria, sottolinea la curatrice. È questa, accanto alla sfida con la luce, la sostanza della sua pittura, un ibrido difficile da reggere alla distanza. Ne dà prova, per esempio, adottando il “falso controluce” che gli consente di tenere uniti paesaggio e figure senza che si senta soluzione di continuità, pur esaltando la plasticità anatomica dei corpi. Nella ritrattistica Sorolla resta un buon pittore che mette a frutto la tradizione spagnola e gli sviluppi ottocenteschi del realismo, ma non è in questi soggetti che raggiunge il suo apice. La sua grandezza è frutto di una progressione verso composizioni dove il realismo si stempera integralmente nella libertà pittorica, tanto che le figure pur individuate, spesso hanno tratti somatici quasi informali: il ritratto di Antonio García del 1909, il già evocato ritratto della Mia moglie e i miei figli, i vari dipinti con figure sulla spiaggia di Biarritz, La siesta (1911), il bellissimo Dopo il bagno (1915). Ma proprio nelle marine e nei giardini (tema già esplorato dalla mostra di Ferrara), la pittura prende il sopravvento in un groviglio di pennellate, colori, forme dove le figure mantengono la loro definizione ma non sono più separabili nel ductus pittorico dell’insieme. Le onde e la loro schiuma inglobano e rendono febbrili attraverso la luce i corpi, le forme s’impongono con perentoria prestanza (come in Spiaggia di Valencia al mattino del 1908). Ma tutto questo è l’esorcismo alchemico della luce di Sorolla: egli è un torero che scende nell’arena e usa il pennello come dovesse sacrificare il sole stesso a un primordiale rito sacro. Un esercizio arcano sul quale Sorolla ha scommesso la sua intera esistenza.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: