lunedì 3 febbraio 2014
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Facebook ha allargato le nostre cerchie di relazioni e ha arricchito il nostro «capitale sociale», ma nessuna tecnologia potrà insegnarci a gestire le nuove responsabilità richieste da questo potente strumento. Secondo Simone Tosoni, docente di "Digital media e processi sociali" e "Media e reti sociali" all’Università Cattolica di Milano, l’enorme e velocissima diffusione di questo social network non ha lasciato il tempo per una risposta culturale adeguata. E oggi una delle prime sfide è proprio quella educativa.Partiamo dalla storia: come leggere l’evoluzione di Facebook in questi dieci anni?Ha fatto con il web quello che il web ha fatto con internet, assumendo al suo interno sempre più servizi che prima, invece, erano dispersi, rispondendo a tre spinte specifiche: le esigenze degli utenti, l’apparire di altri competitori, come Google+, e gli interessi degli investitori. Attraverso il linguaggio Html e il protocollo http il web assunse in sé servizi che erano già presenti in internet riunendoli in un unico ambiente, accessibile attraverso i browser. Così ha fatto e sta facendo Facebook, con alcune differenze. Nella rete sociale, infatti, i servizi vengono riuniti per essere offerti a un utente "profilato", che secondo le normative del social network dovrebbe essere anagraficamente identificabile; cosa che non accade per il web. E poi, a differenza del web, concepito come pubblico, Facebook è di fatto uno spazio privato, in cui codici e protocolli comunicativi sono stabiliti in maniera non sindacabile da una compagnia privata».E perché milioni di persone continuano ad affidare a una compagnia privata anche la propria parte più intima come foto e video?«Perché questo rapporto con una compagnia privata è solo una conseguenza. Ciò a cui si affidano in realtà è a un’audience, cioè a un gruppo che è quello delle loro relazioni. Le relazioni in quanto tali sono transmediali, cioè si costruiscono attraverso diversi mezzi e in differenti spazi, tra cui anche i social network. Quindi il rapporto con Facebook va letto sullo sfondo del rapporto con le nostre relazioni, che vengono in prima istanza. D’altra parte il cuore di Facebook sta nella presentazione di sé ottimizzata a un pubblico. Il social network, in altre parole, permette di costruire una propria immagine assemblando diversi materiali per proporre poi questa immagine agli altri».Ci sta dicendo che ciò che offriamo di noi agli altri su Facebook è falso?«Non userei le categorie di vero o falso, perché in realtà l’immagine che abbiamo all’interno di diversi gruppi sociali ha sempre un carattere costruito. Certo può capitare che siamo costretti a costruire la nostra immagine seguendo codici che magari non ci appartengono. Ma questo succede in tutti i gruppi, in una squadra di pallavolo come nel club degli scacchi. Come si diceva, però, in Facebook limiti e modalità di attivazione di questi codici vengono stabiliti da una compagnia privata».Eppure le comunità virtuali esistono da sempre su internet.«È vero, ma Facebook ha cambiato anche il modello sociale prevalente: se negli anni ’90 risultava centrale il modello comunitario, basato su relazioni strette, nel quale l’identità dell’io emergeva all’interno di un noi, Facebook sposta il baricentro sul soggetto, sull’io che comunica a un’audience interconnessa con una valorizzazione dei legami deboli, legami latenti e potenziali, non necessariamente investiti affettivamente, che possono essere attivati all’occasione, allargando il nostro capitale sociale».Questo investe anche di nuove responsabilità il soggetto?«La grande diffusione raggiunta in 10 anni da Facebook non ha lasciato il tempo per una risposta culturalmente adeguata davanti ai codici comunicativi del social network: uno dei molti esempi è il repost di informazioni non verificate, di cui in pochi si assumono una responsabilità. Ma nessun accorgimento di tipo tecnico può imporre o insegnare il corretto uso di questi codici: è necessaria, piuttosto, l’elaborazione di adeguate politiche culturali perché non possiamo aver fede in un sistema che si autoregoli. E qui entra in campo l’adeguata educazione all’uso del mezzo e alle responsabilità di cui esso ci investe».
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