martedì 10 gennaio 2017
Focus in Media lancia l’allarme: «Il distacco dei tifosi italiani, allo stadio e davanti alla tv, dipende da fattori etici ed economici che non hanno eguali in Europa»
Disaffezionati di Serie A
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Il gelo che è sceso su gran parte dei campi di calcio è la metafora del grande freddo che alberga nel cuore dei tifosi italiani. «Si chiama disaffezione», spiegano i sociologi Ivo Stefano Germano, Piermarco Aroldi e Guido Gili che hanno appena redatto il 10° rapporto di Focus in Media (Fondazione perla Sussidiarietà; sarà presentato alla Cattolica di Milano il 15 febbraio alle ore 10) dal titolo allarmante: Il calcio in fuorigioco?. Dall’analisi del fenomeno e dalle interviste effettuate con tutte le tipologie di tifoso emerge infatti un dato comune che è quello del «distacco non tanto dal gioco del calcio o dalle sue pratiche di fruizione, che pure molti testimoniano – spiegano i tre autori del Focus –, quanto dall’oggetto d’amore incondizionato... e tale atteggiamento è stato definito disaffezione». Nello stato d’animo del disaffezionato tifoso italico incombe anche la «delusione», dettata da un lustro di dominio ininterrotto sul campo da parte di una sola squadra, la Juventus.

Ma questo ci riporta con i tacchetti sul terreno di gioco, mentre l’interessante analisi proposta da Aroldi, Germano e Gili sviscera la problematica inquadrandola in alcune “ipotesi principali”. «L’ipotesi estetica»: disaffezione per il peggioramento della qualità dello spettacolo calcistico dal vivo o come genere televisivo. «Siamo di fronte alla “grande abbuffata” mediatica. E mutuando Michel de Certeau stiamo assistendo al “bracconaggio” della visione collettiva della partita di calcio che agli inizi dell’esperienza delle pay tv (primi anni ’90) era vista anche come occasione sociale e di aggregazione delle famiglie o degli amici al bar. Ora si tende al ritiro per un rito non più settimanale ma ossessivamente “ferializzato” e in una condizione di individualismo.

Ma che in ogni caso la televisione costituisce ancora, nonostante i significativi segnali di riduzione dell’audience, la principale modalità di fruizione dello spettacolo calcistico, anche se ai canali classici – pay tv e reti generaliste –, si affiancano le sempre più numerose possibilità di fruizione in Rete: social, streaming più o meno legali, app, youtube e quant’altro». L’«ipotesi organizzativa» punta il dito contro le società calcistiche italiane che non si sono mostrate all’altezza dell’organizzazione industriale dello spettacolo sportivo. «La fruizione dell’evento sportivo in Italia ha avuto un passaggio generazionale “inceppato” – continua Aroldi –. Diamo dei dati fondamentali: un miliardo e duecento milioni di persone nel mondo seguono il calcio in tv. Il fatturato dell’industria calcistica europea nella stagione 2014-2015 è stato di 22,1 miliardi di euro e si stima che supererà i 25 miliardi nel 2016-2017. La Serie A è una delle cinque top division che partecipa al processo di crescita mondiale del calcio, ma il nostro sistema appare più fragile e precario. Nel professionismo italiano aumentano i fatturati (meno rispetto agli altri paesi) ma aumentano anche le perdite nette annuali e l’indebitamento delle società. E le nuove pro- prietà straniere che rispondono all’adeguamento di un sistema globalizzato hanno svilito il senso di appartenenza dei tifosi che vengono trattati come meri clienti da fidelizzare », osserva Germano.

Il “doping amministrativo” ha portato al fallimento di molti club e il mancato rispetto delle regole del fairplay finanziario ha raddoppiato il numero dei punti di penalizzazione per le società: dai 24 della stagione 2012-2013 ai 56 del 2014-2015. «Il nostro calcio poi è economicamente a rischio in quanto “pay tv-centrico”. Dipende per il 60% dai proventi dei diritti televisivi, mentre negli altri Paesi le voci di bilancio delle società sono ripartite più equamente tra diritti media, sponsorizzazioni e ricavi da altre attività commerciali, entrate legate al match day – fanno notare nel Focus – . Ma la grande bouffe mediatica non spiega da sola lo spopolamento degli stadi italiani, poiché, lo ribadiamo, ciò dipende dallo scadimento qualitativo dello spettacolo dal vivo». E poi abbiamo gli stadi più vetusti d’Europa: il 44% è stato costruito prima del 1949 e solo il 12% sono impianti realizzati dopo i Mondiali di Italia 1990. «Lo stadio desolatamente deserto è la sirena più rumorosa della disaffezione – ricorda Gili – . Dal 2014-2015 a oggi è iniziato un calo preoccupante di presenze sugli spalti con 500mila spettatori in meno rispetto alla stagione precedente e una fluttuazione costante.

La Serie A presenta tassi di riempimento del 55% a fronte dell’oltre 90% di Inghilterra e Germania». Il tifoso lamenta insicurezza, mancanza di servizi e prezzo dei biglietti troppo elevato. «Ma su questo si può obiettare, il costo dei tagliandi dei nostri stadi sono tra i più bassi d’Europa», precisa Germano. Pertanto andrebbe approfondita e magari sanata l’ipotesi che attiene alla sfera “etica”. «I ripetuti scandali, vedi Calciopoli e Scommessopoli – conclude Aroldi – avrebbero prodotto una crisi di credibilità “morale” del sistema e una perdita di fiducia - e conseguentemente di interesse - da parte del pubblico». Un pubblico che probabilmente si identifica nel pensiero dell’intervistato “Anfra”: «Se il calcio diventasse un po’ più vero e meno spettacolarizzato, se recuperasse una dimensione più umana, potrei tornare a seguirlo».

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