sabato 5 gennaio 2019
Una protesi neuronale sviluppata dalla Fondazione Zuckerberg apre scenari positivi per i malati e inquietanti per la privacy
Un modello di cervello umano della metà del 19esimo secolo

Un modello di cervello umano della metà del 19esimo secolo

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Le protesi neuronali suscitano ammirazione e paura nello stesso tempo. Il primo sentimento è indotto, per esempio, dalla possibilità di guidare una mano artificiale, che rimpiazza quella persa, con la sola 'forza del pensiero', ovvero tramite un caschetto che legge le onde cerebrali e invia gli impulsi che comandano il movimento. Il secondo invece è evocato nelle applicazioni fantascientifiche di controllo a distanza di individui resi puri automi da scienziati pazzi o regimi dispotici.

Per esempio, nel libro e nel film The Manchurian Candidate, al protagonista viene impiantato un meccanismo grazie al quale i complottisti possono manipolarlo durante la sua ascesa alla presidenza degli Stati Uniti. Una mescolanza di ammirazione e paura è evocata oggi dallo studio pubblicato su Nature Biomedical Engineering da un gruppo di ricercatori dell’Università di California, Berkeley, dell’azienda Cortera e del Chan Zuckerberg Biohub, la fondazione scientifica del creatore di Facebook e di sua moglie, che ha come scopo ambizioso (e per ora irrealistico) di curare tutte le malattie nell’arco di una generazione, grazie a un budget di 5 miliardi di dollari.

Che cosa hanno fatto i bioingegneri e neuroscienziati guidati dalla giovane e talentuosa Rikky Muller? Sono riusciti a leggere le intenzioni di una scimmia e a impedirle, con la stimolazione elettrica di una piccola area cerebrale, di compiere l’azione che stava per intraprendere e aveva già svolto in precedenza. Ma quello che già sembra un eccezionale traguardo tecnologico avviene in modo automatico e in tempo reale grazie a un dispositivo detto 'closed-loop' (circolo chiuso).

Si tratta di un apparecchio miniaturizzato, come ne sono stati già realizzati, ma che ha prestazioni apparentemente migliori e prospettive di applicazione più promettenti di quelli costruiti finora. Wand, questo l’acronimo scelto, è un cilindretto di poco più di 3 centimetri che è stato impiantato nel cranio di un macaco di nove anni. Una serie di microelettrodi registrano l’attività cerebrale in moltissime aree e i dati vengono trasmessi in modalità wireless a una unità di controllo e programmazione esterna (un computer).

Qual è lo scopo di questa miniaturizzazione di un elettroencefalografo tradizionale? Non solo leggere l’attività del cervello, cosa che si può fare bene anche dall’esterno, ma avere uno strumento il quale sia non solo ultrapreciso nella registrazione passiva, ma pure capace di retroagire direttamente, con una stimolazione mirata a sopprimere o modificare gli impulsi che corrono lungo la rete neuronale di un essere vivente. E siamo al punto critico. L’esperimento ha visto la scimmia muovere un joystick per ottenere una ricompensa (compito tipico in laboratorio). Wand è in grado di 'leggere' in tempo reale quali aree si attivano, e in che modo, nel momento in cui l’animale compie la sequenza motoria che gli permette di manovrare la leva. Una volta programmato in modo consono l’apparecchio – impresa tutt’altro che semplice posto che c’è una forte interferenza tra il registrare una corrente prodotta dal cervello e inviarne una di ritorno alla zona che si vuole influenzare –, Wand coglie l’attimo in cui la scimmia sta per sollevare la zampa che raggiungerà il joystick e le inibisce l’atto con una scarica di cui – probabilmente – la scimmia non ha consapevolezza: semplicemente si trova incapace di muovere quella zampa.

Pensiamo ora a una persona malata di Parkinson e a una malata di epilessia. I sintomi più incapacitanti sono proprio quelli legati al movimento, che il paziente non controlla: in un caso, c’è rigidità; nell’altro, spasmi e gesti rapidi e scomposti. In futuro (non troppo vicino), un dispositivo come Wand potrebbe essere 'istruito' a capire quello che fa il cervello e a correggere istantaneamente i comandi a braccia e gambe secondo parametri di 'normalità'. Un risultato da ammirare. Da temere sarebbe invece l’invasione totale della privacy mentale da parte di protesi neurali che condividono con molte persone (sanitari e tecnici) i dati rilevati, senza escludere la possibilità che vi siano tentativi di hackeraggio da parte di malintenzionati (altri studi indicano infatti che si può parzialmente cogliere nel cervello quello che un individuo sta leggendo).

Per questo si parla oggi, tra i neuroeticisti, di introdurre nuovi diritti e nuove tutele della vita interiore delle persone, che rischia di essere sempre più esposta a intrusioni, sia dirette sia come effetto di interventi terapeutici (senza contare poi i potenziali effetti paradossali della correzione automatica: un dispositivo simile a Wand che curasse la depressione potrebbe attivarsi non solo in presenza del disturbo, ma anche per una tristezza autentica, facendo sorridere inconsapevolmente anche chi si recasse addolorato al funerale del suo miglior amico...).

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