giovedì 4 luglio 2013
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La distanza tra natura e cultura, su cui si sono arrovellati pensatori per secoli, si sta dissolvendo: e il paesaggio demarca tale passaggio. «Se il discorso scientifico nella storia prende la mosse tra l’altro dalla distinzione tracciata da Cartesio tra mente e corpo, tra res cogitans e res extensa, oggi si preferisce prestare attenzione, più che alla differenza, alla relazione che vi intercorre. Il concetto di paesaggio diviene il modello di riferimento»: lo spiega Franco Farinelli, illustre geografo, uno dei docenti che interverranno alla Summer school sull’architettura sostenibile che si apre a Siena il 28 luglio. Che si fonda su una nuova consapevolezza, «riassunta - continua Farinelli - nelle parole del geografo anarchico Élisée Reclus "L’umanità non è altro che la Terra che prende consapevolezza di sé". Così oggi le distinzioni  tra spazio e territorio, tra soggetto e oggetto, tra essere umano e ambiente, non reggono più. C’è la coscienza della assoluta interrelazione...». Tale nuova coscienza è un frutto di quel che è chiamato "globalizzazione": «Un fenomeno non riducibile, come erroneamente pensano alcuni, alla velocità di flusso: riguarda invece la connessione globale tra le persone. E ha una precisa data di nascita: il 1969, quando prende forma la "rete". Né è semplicemente riassumibile alle visioni olistiche del New Age: riflette invece un pensiero più profondo e radicato nella cultura occidentale. Mi vengono in mente le mappae mundi medievali che giganteggiavano in molte chiese: in esse l’immagine della Terra e quella di Cristo si sovrapponevano e l’ambizione era di rappresentare la totalità dell’umanità, esistita, esistente e futura. La modernità ha cancellato questa fusione e dato luogo alle distinzioni...».Questo porta anche alla frammentazione, osservazione rivolta all’architettura contemporanea da tanta parte della critica: «La postmodernità teorizza l’esclusione dell’edificio nella città e questo si traduce nell’eccesso dell’archistar che mira a realizzare monumenti a se stanti, staccati dall’insieme della città, di cui si è perso da tempo il senso. Non a caso nessuno dei teorici contemporanei dell’urbanistica parla mai del De Civitate Dei di Agostino, dove pure si trovano concetti di straordinario interesse, a partire dall’idea dell’insieme di "pietre viventi". E non a caso proprio quest’idea consentirebbe di superare l’artificiosa distanza tra soggetto e oggetto».Le visioni urbanistiche guardano all’architettura come alcunché di morto: vuoto, come nell’immagine rinascimentale della "città ideale" «Come Palmanova: città totalmente progettata, sulla carta bellissima, in realtà deludente. O come nella definizione di città data da Diderot nell’Encylcopédie: muri, edifici, oggetti; non persone. Oggi tutto questo si sta superando...».E anche in campo architettonico si va facendo strada l’idea di democrazia, che sinora le è stata totalmente aliena, poiché l’architetto è tradizionalmente servitore del "principe", ovvero del potente di turno. «Le persone vivono in luoghi fisici, ne hanno bisogno e li sentono propri - sostiene l’antropologo Franco La Cecla - per questo alcuni spazi pubblici sono diventati il simbolo dei moti che stanno causando cambiamenti epocali: al Cairo piazza Tahrir, centro della protesta anti Mubarak; a Istanbul piazza Taksim dove persone di provenienza assai diversa - dalla sinistra europeista ai fedeli della religione sufi - si uniscono per opporsi alla politica di Erdogan, che tra l’altro ha incaricato l’archistar Zaha Hadid di ridisegnare il centro storico della città, stravolgendolo; a Barcellona piazza Catalunya dove si raccolgono gli "indignados". Sono tutti ambienti privi di qualità architettonica e di bellezza: incroci, slarghi anonimi, non-luoghi. Ma diventano luoghi, e di alto valore simbolico, perché scelti dall’impegno collettivo che a gran voce richiede, appunto, democrazia».Quindi gli architetti di per sé non hanno possibilità di contribuire... «Forse molti giovani architetti sognano di diventare archistar. Ma oggi c’è anche chi si impegna a dare un contributo: penso a Architecture for Humanity, gruppo internazionale sorto per aiutare in caso di emergenze come gli tsunami. Ora raccoglie 18 mila progettisti da 44 paesi che si occupano di tutto: scuole, case popolari, spazi pubblici. Lavorano per le comunità. E sono loro a trovare i clienti per cui lavorare, occupandosi anche di reperire i finanziamenti, per esempio, allo scopo di migliorare la qualità di vita nelle bidonville».Reperiscono anche finanziatori che agiscono per motivi morali, e non di interesse? «Il business oggi sta nelle città. Riqualificandole si generano profitti, molti se ne sono accorti. Non a caso in India la ricca "Bollywood" sta investendo negli slum di Delhi...».Anche in Italia c’è chi si muove in questa direzione: Edoardo Milesi per esempio si è impegnato per la realizzazione della scuola tecnica dei Padri Monfortani ad Haiti, finanziata dalla Caritas di Bergamo: «Mira a essere molto più di una scuola. Il popolo di Haiti ha bisogno di andare oltre la sopravvivenza dei sussidi e giungere a farsi carico del proprio destino, usando tecnologie adeguate. Col terremoto molti edifici mal strutturati in cemento sono crollati: siamo costruendo col legno rinforzato da giunti metallici, una tecnica che pratico anche in Italia, sicura in caso di eventi sismici. L’edificazione è usata come occasione di apprendimento e di partecipazione comunitaria. È architettura sostenibile: la via del futuro».
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