martedì 8 giugno 2010
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È la periferia romana durante la seconda guerra mondiale, in particolare quando – segnata dalle privazioni del conflitto e dalle conseguenze dell’occupazione tedesca – diventa teatro di episodi di lotta, di tentativi di sabotaggio, di fiera ribellione…, a costituire il perno del contributo di Rosanna Alessandroni nell’ultimo numero del periodico annuale Ricerche per la storia religiosa di Roma intitolato «Chiesa, mondo cattolico e società civile durante la Resistenza», curato, come gli undici precedenti, dal compianto Luigi Fiorani e del quale costituisce l’ultima fatica storiografica (Edizioni di Storia e Letteratura, pp. 524, euro 65). Una periferia che, tra quartieri e parrocchie, affrontando dure prove e pagando tributi umani, si trasforma in una comunità che esprime dolore, ma anche rabbia. Che non si rassegna e combatte. Alla Magliana, alla Montagnola, a Porta San Paolo, lungo la Prenestina e la Casilina, nel quadrante sud-est della città… Là dove la resistenza pare assumere le proporzioni di un movimento popolare. Nelle borgate dove girano armi, si stampano volantini, si organizzano assalti, si vive la clandestinità… Da Certosa a Tor Pignattara, da Donna Olimpia a Val Melaina, da Portonaccio a Ostia… Ed è sempre nella periferia romana che avviene la prima strage nazista: Pietralata, dieci persone fucilate; o il primo rastrellamento indiscriminato: a Montesacro, un migliaio di persone incolonnate, 346 trattenute. E nemmeno i bombardamenti degli Alleati risparmieranno queste gloriose zone ai lembi del cuore della capitale. Se è vero che la storiografia tradizionale resistenziale ha atteso un po’ prima di concentrarsi  anche su questi luoghi più lontani dai palazzi del potere, il quadro sta mutando. E con  le testimonianze degli ultimi sopravvissuti, anche le carte degli archivi fanno emergere il ruolo non secondario di decine di parrocchie dell’Urbe, anche periferiche, come centri di accoglienza o di soccorso sotto la responsabilità di coraggiosi sacerdoti. Un soccorso destinato non solo a renitenti alla leva, disertori, partigiani, antifascisti, ma anche agli ebrei romani, costretti dopo gli sventramenti nelle zone del centro e la caccia antisemita nel Ghetto a riparare qui. Ma anche qui inseguiti e perseguitati. Con le Ss che si muovevano a colpo sicuro: dopo essere entrate in possesso dei registri degli ebrei romani e averne sottratto gli elenchi alla sinagoga. E, anche in questo caso, si tratta di vicende meno conosciute. Di aiuti meno noti rispetto a quelli prestati agli ebrei da congregazioni religiose pronte ad aprire i conventi, oppure rispetto a quelli assicurati dai seminari a tanti rifugiati. In definitiva si tratta di altri tasselli che vanno al loro posto nella ricostruzione storica dei rapporti fra le diverse strutture della Chiesa cattolica e gli occupanti della «città aperta». Non però senza riscontri documentali: si tratti degli archivi del Ministero dell’Interno (Direzione generale dei culti, che conserva pure le segnalazioni alla questura dell’attività omiletica di alcuni parroci), di documenti provenienti da fondi parrocchiali, del Pci o del Museo storico della liberazione di Roma. Pezzi di storia, magari sin qui raccontati per frammenti, ma soprattutto una galleria di profili, di volti sui quali sostare. Ad esempio quello di don Adolfo Petriconi, parroco del Santissimo Redentore a Val Melaina, che accusato di «favoreggiamento del nemico» fu prelevato dalla Gestapo insieme al suo vice don Parisio Curzi e rinchiuso nel famigerato Terzo Braccio di Regina Coeli perché la loro parrocchia era luogo di accoglienza di perseguitati (i due sacerdoti evitarono la condanna a morte solo per la grazia concessa da Kesserling, supplicata dal cardinale vicario). Oppure quello del viceparroco padre Fiorello Piersanti che, a Montesacro, aprì la parrocchia dei Santi Angeli Custodi accogliendovi giovani legati al Partito d’Azione, in contatto con alcuni ebrei come il medico Paul Lauffer fuggito dalla Pomerania. O quello di don Luigi Manazza, guanelliano parroco a Valle Aurelia, che con i suoi parrocchiani e i residenti trasformò alcune fornaci spente del luogo in un rifugio per antifascisti ed ebrei, poi indirizzò soprattutto i perseguitati razziali alla Casa Don Guanella presso Sondrio, un posto dal quale con relativa facilità si  poteva riparare in Svizzera. E ancora quello di don Ferdinando Volpino, un esempio di resistente particolarmente attivo che, parroco a Santa Maria della Divina Provvidenza a Donna Olimpia, aprì la canonica a ripetute riunioni clandestine, ospitando quasi una settantina di ebrei nello scantinato della chiesa, destinato anche a deposito di armi per le formazioni partigiane. E quello, alla Montagnola, del parroco di Gesù Buon Pastore, il paolino Pietro Occelli, che riuscì a mettere in salvo decine di persone  fra perseguitati politici ed ebrei. Ma l’elenco dovrebbe continuare anche dando spazio a tanti profili di preti della resistenza disarmata come don Pietro Pappagallo, che pagò con la vita alle Fosse Ardeatine la sua ospitalità ai bisognosi. In ogni caso, se è vero che, paragonato all’aiuto offerto dagli istituti religiosi, quello delle parrocchie fu certamente inferiore e circoscritto, resta però da aggiungere che si rivelò ancor più pericoloso, non potendo le canoniche godere di quell’immunità assicurata a tanti istituti religiosi che recavano agli ingressi i cartelli bilingue vietanti perquisizioni e requisizioni. Non solo: secondo la testimonianza di un collaboratore di don Teocle Bianchi, cioè don Giovanni Battista Proja della parrocchia Santa Galla, eretta in tempo di guerra alla Circonvallazione Ostiense, un aiuto importante che arrivava dalle parrocchie, oltre l’ospitalità o il sostegno economico, stava nella ricerca di espedienti per non applicare le leggi razziali. In effetti, già nel ’42 i fascisti avevano divulgato un opuscolo con 200 cognomi di appartenenza ebraica.Ha ricordato don Proja, dopo aver dichiarato che «Pio XII , a voce, aveva fatto sapere che tutti gli ordini religiosi e le parrocchie facessero il possibile per ospitare e difendere gli ebrei»: «Quando venivano fidanzati che volevano celebrare il matrimonio e avevano uno di questi cognomi, era un problema grosso perché non si poteva procedere al matrimonio. Non sapendo come fare, il Vicariato diede disposizione di far fare un giuramento suppletivo a questi dal cognome ebraico in cui dichiaravano di essere cristiani da tante generazioni. Questo documento si piegava e si metteva in una busta e lo si portava in Vicariato. In tal modo si riusciva a non applicare questa legge razziale, mentre in parrocchia non rimaneva traccia della dichiarazione».
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