mercoledì 29 luglio 2020
Il problema non è abbattere i segni del passato, ma purificare la storia ancora in atto: ricognizione su secoli di discriminazioni “a norma di legge”
Vendita di schiave catturate dai pirati in un bazar di Algeri (stampa del XVIII secolo)

Vendita di schiave catturate dai pirati in un bazar di Algeri (stampa del XVIII secolo) - Fototeca Gilardi

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La storia dell’umanità è talmente ampia e ricca che ciascuno di noi può, di volta in volta, scoprire in essa qualcosa di nuovo, o sconosciuto. Sempreché non si acceda al paradosso di Voltaire per il quale «se si dicesse la verità la storia non esisterebbe». Ma la storia esiste, si evolve, patisce involuzioni, chiede a tutti d’essere 'giudicata'. A questo proposito, con riferimento alla tendenza iconoclasta in atto, soprattutto negli Stati Unti d’America, per abbattere anche la memoria del passato, Antonio Scurati ha fatto rilevare che la storia è inscindibile dal tempo in cui si realizza, e che «è solo entrando in un racconto che il tempo - spietato, indifferente, sterminatore - si umanizza, diventa tempo umano». Bisogna conoscere il contesto di un passaggio storico, evento o personaggio, ma anche far ricorso «a quella sublime forma di pietà che ci guida a comprendere l’altro da noi quando riusciamo a giudicare l’umanità nel tempo e ogni uomo nel suo tempo. E difficile, è come riuscire a scattare una foto del volo rapido di un uccello da un mezzo in rapido movimento. Noi nel gorgo del nostro tempo lui nel gorgo del suo». C’è però un dato che non possiamo controllare del tutto, ed è il tempo psicologico legato all’orrore. Chi non comprende che nella contemporaneità delle tragedie compiute, dei misfatti ancora vivi agli occhi di chi li ha vissuti, quasi si auto-legittima la furia iconoclasta dei simboli di un regime come distruzione del regime stesso? Ma c’è un’ulteriore variante, perché il male può appartenere a più epoche, può sopravvivere, accompagnarci fino ai giorni nostri, provocare reattività ancora oggi. Nella serie infinita di 'storie alternative' che possono dipanarsi, e che sono esistite davvero proprio quando si è detta la verità, un posto speciale spetta alla più antica colpa dell’uomo, quella di sfruttare e soggiogare gli altri uomini, fino alla schiavitù, e un posto speciale spetta all’Ottocento che sembra lontano, ma che è giunto sino a noi. E già allora tanti uomini e donne lottavano contro schiavismo e razzismo, divenuti quasi orrori dell’anima che non si riesce a estirpare. Essi esistono sin dagli albori della storia, ma negli Stati Uniti sono teorizzati, alimentati, fuori di ogni immaginazione o schema che solo in parte conosciamo. Per Alexis De Tocqueville, al nero spetterebbe solo la naturalità materiale, perché «quest’uomo è nato nella bassezza; a fatica noi riconosciamo i tratti generali dell’umanità in questo straniero introdotto fra noi dalla servitù. Il suo viso ci sembra ripugnante, la sua intelligenza limitata, i suoi gusti bassi, poco manca perché lo prendiamo per un essere intermedio fra il bruto e noi» ( La democrazia in America, 1835-40). Gli altri negano ogni potenzialità, perché «è proibito ai bianchi, o a qualsiasi persona libera, sotto pena di pesanti multe, insegnare agli schiavi a leggere e a scrivere, perché l’erudizione li avrebbe resi intrattabili. La Luisiana punisce questi eventuali insegnanti clandestini con l’incarcerazione da uno a dodici mesi». Ci sono poi gli orrori dei codici neri, che definiscono la condizione servile come soggezione dello schiavo «al padrone e a tutti quelli che lo rappresentano non suscettibile di alcuna modificazione o restrizione, cosicché egli deve al suo padrone e alla sua famiglia un rispetto senza limiti e un’obbedienza assoluta» (art. 1 del Codice dalla Luisiana).

Uno schiavo può essere malmenato, torturato, ucciso, sfruttato come oggetto sessuale a beneplacito del padrone, è tenuto nell’ignoranza, per il solito non può sposarsi (l’unione viene a volte consacrata dalla cerimonia del manico di scopa), e privo di qualsivoglia capacità giuridica. Qualunque ribellione è punita a discrezione del proprietario, che può infierire nelle sevizie, nelle mutilazioni, nell’uccisione dello schiavo (che non è considerata crimine) nel farlo a pezzi, o nell’esporlo inchiodato a mo’ di ammonimento per gli altri schiavi (George P. Rawich, Lo schiavo americano dall’alba al tramonto, Feltrinelli 1973). Non di rado la sua uccisione è derubricata al rango di infrazione, e nella Carolina del Sud, è multata con 700 sterline, che divengono 350 se consegue a improvvisa rabbia e passione (« on sudden heat and passion »). Ogni rapporto sessuale tra un nero e una bianca è considerata stupro, a prescindere dal consenso. Tutto ciò non era frutto di pratiche sia pure aberranti, di una società arretrata, ma di una cultura che nel frattempo elaborava la Costituzione federale, i suoi nobili princìpi, e che ha dato vita a grandi personalità, liberali e razziste, moderne e violente. Una simile visione è teorizzata dalla Corte Suprema degli Stati Uniti che con la sentenza del 6.III.1857 considera la popolazione nera «come una classe di esseri subordinati e inferiori, che erano stati soggiogati dalla classe dominante» ed erano «talmente inferiori che essi non avevano alcun diritto che l’uomo bianco dovesse rispettare». E per salvarsi l’anima, (o perderla), la Corte ritiene che «non è competenza di questa Corte decidere la giustizia o l’ingiustizia, l’avvedutezza o la non avvedutezza di queste leggi». La giustizia è, per volontà del legislatore, fuori del mondo e della storia. Paradossalmente, l’abolizione della schiavitù provoca la crescita del razzismo dal momento che per Tocqueville «negli Stati Uniti il pregiudizio che respinge i negri cresce via via che i negri cessano di essere schiavi e l’ineguaglianza pesa nei costumi via via che scompare nelle leggi». E la Corte Suprema, ancora nel 1896 (Sent. 13.IV.18 V 1896), con linguaggio (per noi) disarmante afferma che «la legge non ha il potere di sradicare gli istinti razzisti o di abolire le distinzioni basate sulle differenze fisiche, e il tentativo di farlo non farebbe che accentuare le difficoltà della situazione presente. Se una razza è inferiore all’altra socialmente, la Costituzione degli Stati Uniti non può porle entrambe sullo stesso piano». Nella gradazione dei popoli oppressi si situa la condizione degli indiani d’America, nei confronti dei quali la Corte Suprema sempre nel 1857 dichiara che i loro governi sono «considerati e trattati come governi esteri, esattamente come se un oceano separasse l’uomo bianco dal pellerossa ». E «sebbene fossero incivili», gli indiani erano tuttavia liberi e indipendenti. La loro «sottomissione alla razza bianca» è stata in frutto di eventi, e si è dovuto «per il loro bene e per il nostro, considerar(li) come in uno stato di tutoraggio», e se uno di loro abbandonasse la propria nazione o tribù «sarebbe insignito di tutti i diritti e i privilegi che apparterrebbero ad un emigrante proveniente da un altro paese straniero».

La Corte riesce a far diventare gli indiani emigranti in casa propria, e gli rende l’onore delle armi; ma nell’oceano che separa i bianchi dai pellerossa c’è lo sterminio dei conquistatori, punteggiato dalle guerre contro Toro Seduto dei Sioux hunkpapa, Geronimo apache dei Chiricahua, e contro gli esiliati nelle riserve con trasmigrazioni che Tocqueville descrive lucidamente. Egli assiste alla trasmigrazione forzata degli indiani Choctaw che «abbandonavano il loro paese e cercavano di passare sulla destra del Mississippi», per raggiungere l’asilo promesso dal governo americano, «eravamo nel cuore dell’inverno, il freddo si faceva sentire in quell’anno con insolito rigore; la neve si era indurita per terra e il fiume trascinava degli enormi ghiacci. Gli indiani conducevano con sé le famiglie; si tiravano dietro, feriti, ma-lati, bambini appena nati e vecchi morenti; non erano muniti di tende né di carri, e avevano soltanto poche provviste e armi. Li vidi imbarcarsi per traversare il gran fiume e non dimenticherò mai questo spettacolo solenne. Non si udivano fra quella folla né lamenti né pianti; essi tacevano. Gli indiani erano già entrati nel bastimento che li doveva portare, mentre i loro cani erano ancora sulla riva. Ma, quando questi animali videro che partivano per sempre, mandarono terribili latrati, e lanciatisi nelle acque semighiacciate del Mississippi, seguirono i loro padroni a nuoto» Il razzismo allunga la memoria della schiavitù lungo tutto il Novecento creando nel Sudafrica con l’apartheid sofisticate e aberranti regionalità razziali, offrendo a neri, zulù, bantù, asiatici, riserve territoriali in cui possono muoversi e circolare con passaporti, documenti di lavoro e autorizzazioni speciali, e con identità sempre più incerte. Numerose leggi proibiscono, nel 1927 e nel 1948, ogni promiscuità sessuale tra bianchi e neri, e ovviamente i matrimoni misti. Nel 1953 il Separate Amenities Act prevede la separazione dei luoghi pubblici tra bianchi e nonbianchi e ogni cosa deve avere il suo colore. Sedili per i bianchi nei giardini pubblici, mentre i neri siedono sull’erba, toilette distinte in pieno deserto, autobus vuoti e autobus gremiti secondo il colore, tribune separate negli stadi. Il Bantu Education Act limita le possibilità di istruzione per i non bianchi, sulla base del principio: «Qual è l’utilità di imparare le matematiche per un giovane bantù che non deve mai servirsene?».

Lo smarrimento del razzista è completo quando, con il Populorum Registration Act del 1950 si stabiliscono i criteri di appartenenza, e di trasferimento. Si inventano uomini colorati di razza bianca: White person significa «una persona che (…) è generalmente considerata una persona bianca, e d’aspetto non è in modo evidente una persona bianca ». Si crea il meticciato bianco: «In mancanza di prova, che una persona che non è nera, è generalmente riconosciuta come bianca, si assumerà che essa è generalmente riconosciuta come meticcia ». Si creano le razze apparenti: «Una persona che di aspetto è con evidenza membro di una razza o tribù d’Africa ai fini del presente Act si presumerà nero, a meno che si provi che egli non è di fatto né è generalmente riconosciuto come tale ». Fondata sulle sofferenze di un popolo, la deriva del razzista è definitiva nelle disposizioni finali del testo legislativo con la « sospensione della razza per dispensa (temporanea, definitiva, e comunque revocabile) del Presidente dello Stato», che deve essere fatta con apposito proclama da pubblicare sulla Gazzetta. Da questa storia recente nasce l’alba di resurrezione, con le Dichiarazioni universali dei diritti dell’uomo. Dopo persecuzioni e lunga prigionia, Nelson Mandela manderà al macero tutte le follie di un razzismo disarticolato, così come negli Stati Uniti il movimento dei diritti civili di Martin Luther King, le riforme di John Fitzgerald Kennedy, attiveranno prepotenti emancipazioni anche a livello internazionale. Da questo scorcio di storia moderna si possono trarre tante lezioni. Anzitutto, seguendo il pensiero iniziale di Antonio Scurati, quella di studiare, e studiare, la storia, e diffonderne le verità atroci più o meno dimenticate. In secondo luogo, se è sacrosanto rifiutare l’iconoclastia rivolta al passato, è altrettanto sacrosanto non dimenticare l’ombra lunga del razzismo, e i suoi epigoni che esistono oggi in ogni luogo del pianeta: la pratica della schiavitù che esiste nei luoghi del mondo del lavoro, la condizione della donna ancora tenuta in soggezione per tante diverse ragioni, la moderna schiavitù che patiscono i migranti respinti da tanti Paesi. Si scorgerà che il problema vero non è quello di abbattere i segni del passato che ci fa vergognare, ma l’altro di purificare la storia ancora in atto dai misfatti che si compiono per lo sfruttamento di uomini e donne di cui sembra quasi non ci si voglia accorgere.

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