giovedì 30 marzo 2017
Lo scrittore italo-magiaro: «Sotto ogni ricerca o proclamazione di identità agisce la convinzione, più o meno consapevole o mascherata, della sopravvalutazione di sé e del disprezzo per l'altro»
Giorgio Pressburger. Nel “Don Ponzio Capodoglio” riscrive “Don Chisciotte”. «La funzione del comico è consentire un maggior distacco che, per paradosso, si trasforma in empatia fortissima».

Giorgio Pressburger. Nel “Don Ponzio Capodoglio” riscrive “Don Chisciotte”. «La funzione del comico è consentire un maggior distacco che, per paradosso, si trasforma in empatia fortissima».

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Giorgio Pressburger voleva scrivere un libro divertente, e ci è riuscito. Ma questo Don Ponzio Capodoglio (Marsilio, pagine 448, euro 19,00) non è soltanto un romanzo come non se ne leggono più, ilare e movimentato, erudito e sprezzante dell’erudizione, costruito su un impasto linguistico che è, in definitiva, il racconto stesso. Don Ponzio Capodoglio è anzitutto una riscrittura del Don Chisciotte di Cervantes compiuta con meticolosa inventiva attraverso la rispondenza perfetta della struttura complessiva (la presunta traduzione di un manoscritto altrui, la suddivisione in due parti) e dei singoli episodi. Ma lo scenario è cambiato, siamo nel turbine della storia recente e l’espatriato ingegnere chimico Pons Capdeuill ha al suo fianco, anziché lo scudiero Sancio Panza, la rotondeggiante sposa Sieglinde, che proprio non riesce a comprendere come mai il marito abbia in testa questa fissazione per origini e discendenze. Una scorribanda nel comico alla quale Pressburger si è dedicato dopo un’altra impresa monumentale: il viaggio oltremondano, di esplicita ascendenza dantesca, descritto in Nel regno oscuro (2008) e Storia umana e inumana (2013). Nato a Budapest nel 1937, ma triestino dal 1956, oggi alle ore 11.30 Pressburger dialogherà con un altro cosmopolita eccellente, il franco- ceco Patrik Ouredník, presso la Fondazione Querini Stampalia di Venezia, nell’ambito del festival Incroci di civiltà. «L’identità – anticipa – è il tarlo dell’Occidente».

Per questo l’ha messa al centro del suo personale Don Chisciotte?

«Il protagonista è sempre un uomo dominato da un’ossessione, che ormai non può più essere indirizzata verso i romanzi cavallereschi. Mi so- no interrogato su quale fosse il corrispettivo contemporaneo di quella mania e mi sono reso conto che il tema dell’identità, sul quale mi arrovello da sempre, rappresenta oggi la più ricorrente e pericolosa delle ossessioni. Ne sono affetti gli individui così come le società. Sotto ogni ricerca o proclamazione di identità agisce la convinzione, più o meno consapevole o mascherata, della sopravvalutazione di sé e del conseguente disprezzo per l’altro. Fortuna che non tutta l’umanità è così». In che senso? «L’Occidente è radicato nell’io, l’Oriente è attratto dal vuoto. Che però, da solo, non può essere la soluzione. Bisognerebbe conciliare le due tensioni, in modo da evitare un rischio che, invece, sembra farsi sempre più vicino. L’Europa ha già scatenato due guerre mondiali, non possiamo arrenderci al ritorno di una minaccia tanto terribile».

Non sono argomenti da romanzo comico, non trova?

«Al contrario, la funzione del comico è proprio quella di consentire un maggior distacco, una maggiore obiettività che, per paradosso, si trasforma in un’empatia fortissima, di un genere molto difficile da ottenere attraverso il tragico. Comico e tragico, in ogni caso, restano complementari, come Oriente e Occidente ».

Nel libro ci sono lunghi intermezzi di intonazione quasi saggistica: lo statuto del romanzo, la ricerca di una voce narrativa, l’importanza delle lingue...

«Le mie ossessioni, lo confesso. Per discolparmi posso solo dire di essermi trovato in mezzo a questa complessità. La fuga dall’Ungheria, l’arrivo in Italia, la necessità di esprimermi in una lingua che non mi apparteneva dalla nascita. E, sullo sfondo, la mescolanza di culture e tradizioni caratteristica dell’Europa centrale. Trovare la mia strada non è stato facile».

Quanto ha contato il rapporto con suo fratello Nicola?

«Moltissimo. Eravamo gemelli, i primi libri li abbiamo scritti assieme, alternandoci senza soluzione di continuità. Dopo la sua morte, nel 1985, la mia voce è cambiata, si è fatta più cupa».

Don Ponzio è accompagnato dalla moglie Siegliende, ma anche dalla spia Negrescu, che stila il primo resoconto dei fatti. Come mai?

«Questo è cambiamento rispetto a Cervantes, lo so bene. Nel Don Chisciotte sappiamo che il manoscritto originale è opera del Cide Hamete Benengeli, che però non entra mai in scena. Il punto è che mi piaceva l’idea che il mio protagonista, alto e magro, avesse per compagna una donna carnale e robusta, nella quale si rispecchiasse e dalla quale fosse contraddetto. Ancora non bastava, però. Ed ecco che è arrivato Negrescu».

Che stranamente le assomiglia molto.

«Sì, gli ho prestato un po’ della mia biografia. Gli ho trasmesso, più che altro, la mia inquietudine linguistica. Nello stesso tempo, continuo a riconoscermi in Don Ponzio, con uno sdoppiamento che rimanda, ancora una volta, alla mia condizione di gemello. Più stretto è il legame, più difficile diventa capire chi stia scrutando chi, dove finisca il soccorso reciproco e dove inizi la persecuzione».

Un Pons de Capduoill è esistito veramente: chi era?

«Un trovatore del XIII secolo, rappresentante di quella stagione meravigliosa nella quale, grazie alla poesia provenzale, l’Europa ha avuto una cultura comune e parla un’unica lingua, diffusa e compresa in ogni Paese. Un’occasione straordinaria, un istante passato troppo in fretta. Neppure la Chiesa, così spesso lungimirante nella sua storia, ha compreso il valore di quel momento cruciale ».

E l’Europa di oggi?

«Troppo concentrata sull’economia, troppo smaniosa di denaro. Altra ossessione, per me incomprensibile. Pur vivendo dignitosamente, ho avuto la fortuna di non essere mai un riccone. Tutti quei soldi, se l’immagina che distrazione? Non resta più il tempo per pensare, per dedicarsi alla riflessione».

Come Don Chisciotte, in conclusione anche Don Ponzio rinsavisce. Perché?

«Perché anche dalla follia dell’identità si guarisce. Di solito all’improvviso, in seguito a un qualche evento che obbliga a cambiare idea. Il mio non è solo un espediente romanzesco. Sono persuaso che un ravvedimento sia sempre possibile. Sarebbe molto grave, se non fosse così».

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