mercoledì 19 febbraio 2014
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​I cristiani non abitano più a Pompei. A sfrattarli, dopo quasi due secoli di onorato servizio, è il kolossal hollywoodiano in arrivo domani nelle sale: un Pompei eventualmente anche in 3D, diretto da Paul W.S. Anderson con generoso dispendio di immaginario da videogame e assoluto sprezzo del pericolo per quanto riguarda la verosimiglianza storica. Anderson. del resto, è il regista che ha portato al cinema la saga videoludica di Resident Evil ed è abbastanza normale che si trovi a suo agio fra combattimenti, smottamenti, lava, lapilli, tsunami ed esibizioni muscolari. Trama ridotta all’essenziale, un po’ Titanic e molto Il Gladiatore con lo schiavo Milo (l’attore Kit Harington) fermamente intenzionato a vendicarsi del bieco senatore Corvo (Kiefer Sutherland), sterminatore della sua famiglia lassù, tra le brume celtiche. Il tempo passa, Milo viene trascinato in Costiera e qui ama, riamato, la bella dama romana Cassia (Emily Browning), solo che il Vesuvio comincia a brontolare, interrompendo bruscamente la mattanza dei giochi nell’arena.Fermi tutti, questo è il segnale. Perché la storia di Pompei può essere raccontata in mille modi, d’accordo, ma il dettaglio della perfetta contemporaneità fra l’eruzione del vulcano e i ludi gladiatorii vanta, se non un vero e proprio copyright, almeno un’origine ben precisa. Nel 1834, infatti, Edward Bulwer-Lytton pubblica Gli ultimi giorni di Pompei, il romanzo al quale risale quella che potremmo definire la tradizione “popolare” relativa alla calamità del 79 d.C. (l’altra, più elitaria, coincide con la ricezione di Gradiva, la novella del tedesco Wilhelm Jensen che fu studiata e analizzata da Sigmund Freud). È nel libro di Bulwer-Lytton che il gran finale, con annessa resa dei conti fra buoni e cattivi, intreccia per la prima volta i clangori dell’anfiteatro e i fragori del Vesuvio. Ed è ancora al libro di Bulwer-Lytton che fin dall’epoca del muto il cinema ha fatto riferimento, in modo ora dichiarato ora indiretto. L’imprinting letterario non si limita allo scioglimento della vicenda, ma riguarda anche la storia d’amore che fa da linea di racconto principale e si estende a quello che, nell’attuale Pompei cinematografico, è l’elemento più pasticciato e disatteso: la composizione religiosa di una comunità romana nel primo secolo del cristianesimo, appunto.Non che Bulwer-Lytton fosse un apologeta, intendiamoci. Nato nel 1803 a Londra in una famiglia facoltosa da cui fu in sostanza diseredato a causa di un matrimonio considerato socialmente inaccettabile, subì il fascino dell’occultismo e fu iniziato alla massoneria. Un suo romanzo, Zanoni (1842), è considerato ancora oggi un avventuroso compendio della dottrina esoterica dei Rosacroce, mentre La razza che verrà (1871) mostra uno scenario fantascientifico non esente da tentazioni eugenetiche. Uomo politico oltre che scrittore prolifico, Bulwer-Lytton – che morì nel 1873 dopo aver conseguito il titolo di barone – ha goduto a lungo di una paradossale fortuna per l’incipit di uno dei suoi molti romanzi, Paul Clifford, che comincia con le parole: «Era una notte buia e tempestosa...». Chi conosce i fumetti di Charles M. Schulz e, in particolare, le ambizioni di romanziere del bracchetto Snoopy sa bene di che cosa stiamo parlando.Bulwer-Lytton non parteggiava per i cristiani, dunque, però negli Ultimi giorni di Pompei i cristiani ci sono e svolgono un ruolo rilevante. Come mai? Semplicemente perché le basi storiche del libro – esito di un lungo soggiorno italiano dell’autore – sono più solide di quelle su cui Anderson ha costruito il suo film. A segnalare la presenza di un gruppo di discepoli di Gesù nella città campana, del resto, è anche Walter Benjamin, che in una delle conversazioni radiofoniche degli anni Trenta ora riunite da Giulio Schiavoni in Burattini, streghe e briganti (Rizzoli, pagine 390, euro 11) si sofferma sul graffito pompeiano in cui viene evocata la sorte di Sodoma e Gomorra. Nel romanzo di Bulwer-Lytton il cristianesimo rappresenta la religione del mondo nuovo, destinata a soppiantare sia i culti ancestrali d’Egitto (per la figura del perfido sacerdote Arbace lo scrittore si sarebbe ispirato all’occultista partenopeo Domenico Bocchini) sia l’ormai esausta devozione agli dèi dell’Olimpo. Certo, Bulwer-Lytton prende spunto dallo «zelo ardente» dei primi cristiani per criticare l’«intolleranza» della «chiesa riconosciuta e sovrana» e piega il racconto evangelico al gusto per l’horror (a un certo appunto appare il figlio della vedova di Nain, che Gesù ha fatto risorgere e che ora vaga sulla terra come se fosse l’Ebreo errante). Ma nella sua Pompei i cristiani ci sono e lì, da allora, sono sempre rimasti.Li ritroviamo in ognuno dei film che si sono susseguiti di decennio in decennio, dal magniloquente Gli ultimi giorni di Pompei diretto nel 1926 da Carmine Gallone e Amleto Palermi fino alla miniserie tv realizzata da Giulio Base nel 2007, passando per la pellicola del 1950 per la quale Michel L’Herbier interpellò senza successo Albert Camus, reduce dalla stesura del dramma Caligola. Nel Pompei di Anderson, invece, l’unico a pregare è il nerboruto gladiatore nero Attico, che porta con sé la statuetta di un idolo africano. Dettaglio che forse l’esoterista Bulwer avrebbe apprezzato, ma che di sicuro il romanziere Lytton avrebbe considerato insufficiente.
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