lunedì 4 febbraio 2013
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​C’è chi l’ha chiamata una nuova corsa all’oro nero, come quella che si scatenò a ridosso della Guerra di secessione, quando una massa di capitali si riversò sulle fonderie di Pittsburgh, che iniziarono a sfornare tubi e pompe per l’estrazione petrolifera. E la Pennsylvania si ritrovò puntellata di pozzi simili a torrette militari, attraendo lavoratori vaganti per gli sconquassi delle campagne tra Nordisti e Sudisti. Oggi negli Usa l’euforia da perforazione riguarda maggiormente altri Stati, come North Dakota, Wyoming, Montana e Oklahoma, che viaggiano a un tasso disoccupazione tra i più bassi del Paese, dato che il nuovo boom ha rivitalizzato l’indotto dell’acciaio, dei trasporti e anche dell’edilizia. Ma è tutto un roteare di trivelle e turbine anche in Texas, Colorado e su fino al Midwest. Cosa ci sia dietro a tutto ciò l’ha spiegato lo scorso novembre l’Agenzia Internazionale per l’Energia, l’organizzazione con sede a Parigi creata nel 1974, all’indomani della crisi petrolifera, per monitorare il mercato dei combustibili. Stando al suo ultimo rapporto, il World Energy Oultook, gli Stati Uniti si apprestano a diventare entro il 2020 il primo produttore di petrolio al mondo e, se riusciranno a migliorare l’efficienza termica delle costruzioni, possono puntare a una sostanziale autarchia energetica. Secondo il Dipartimento americano per l’energia la produzione interna di gas e petrolio non solo è in crescita da 5 anni consecutivi, ma nel 2013 dovrebbe attestarsi sugli 11,4 milioni di barili al giorno, con la prospettiva di salire a 15 milioni nei prossimi anni, a fronte di un fabbisogno giornaliero attualmente di 18,7 milioni di barili. Un risultato che avrebbe ripercussioni notevoli sull’economia interna, grazie al risparmio sulla bolletta energetica e sui prezzi della benzina. Philip Verleger, economista molto ascoltato sulle questioni energetiche, ha parlato della più importante spinta all’economia americana dall’aumento della produttività con la diffusione dei personal computer all’inizio degli anni ’90. Ma gli effetti sarebbero grandi, e in gran parte imprevedibili, anche sulla geopolitica mondiale. Nel 1990 il re saudita Fahd, incontrando l’allora segretario alla difesa Dick Cheney, ricordò un episodio un po’ dimenticato nei meandri della storiografia. Ovvero quando nel 1945 Roosevelt, subito dopo la conferenza di Jalta, fece rotta con la portaerei Quincy nel canale di Suez, dove si trattenne per tre giorni con il re d’Egitto Farouk, Hailé Selassié d’Etiopia e con il padre di Fahd, re Abdulaziz ibn Saud, per discutere l’assetto del Medio Oriente. Lì venne sancita anche un’alleanza rimasta intatta dopo sette decenni: l’Arabia Saudita, che siede sui più grandi giacimenti del pianeta, sarebbe diventata l’esportatore di petrolio di prima e ultima istanza per gli Usa, sotto la loro protezione diplomatica e militare. Ora quel rapporto, con tutto ciò che significa, potrebbe fortemente allentarsi, perché l’America potrebbe superare a breve la stessa produzione di petrolio saudita. Se a questo si unisce il prossimo pieno recupero dei giacimenti iracheni e il possibile disimpegno dal nucleare di altri Paesi oltre alla Germania, i presupposti per un cambiamento dei rapporti di forza sullo scacchiere mondiale dell’energia aumentano. Alla base di quello che sta avvenendo, e a supporto della volontà geo-politica americana di rimodulare certi equilibri, c’è la combinazione di alcuni fattori "tecnici": l’alto prezzo del petrolio, che ha caratterizzato gli ultimi dieci anni, ha reso possibile per le imprese del settore investire nell’estrazione di gas e petrolio cosiddetti non convenzionali, ossia da scisti e argille bituminose. Un’opzione rimasta a lungo marginale, portata adesso alla ribalta anche dal miglioramento delle tecnologie estrattive e dal loro minor costo. Parliamo in particolare del fracking, o fatturazione idraulica, che consiste nello sparare nel sottosuolo grandi quantità d’acqua ad alta pressione, mista a solventi chimici, per spaccare le formazioni rocciose ricche di sostanze organiche non trasformate completamente in idrocarburi. Una volta avvenuta la frattura, la sabbia che viene pompata permette di tenere aperte le cavità create e quindi di estrarre con una perforazione orizzontale gas e petrolio non convenzionali imprigionati nelle rocce. Ovviamente resta una tecnica costosa rispetto alla facilità con cui si può estrarre petrolio con i metodi "classici" dalle riserve del Medio Oriente, per cui – prevedono gli esperti – il trend può continuare se il prezzo medio del barile non scenderà da qui agli anni a venire sotto i 75 dollari. In ogni caso la corsa è già iniziata. E non solo negli Usa, ricchi di giacimenti piccoli o giganteschi, come quello di Bakken in Nord Dakota. In Cina, a novembre, il magazine di economia Caixin ha parlato di un grande piano di Pechino per spingere l’acceleratore sul fracking. L’Argentina starebbe pensando di fare lo stesso, così come la Polonia, il Paese in Europa che detiene riserve importanti di scisti – assieme all’Estonia – e che vede in questa via la possibilità di sottrarsi al giogo del gas russo. Come tutte le "rivoluzioni" energetiche, anche questa però ha il suo lato più che controverso. Francia, Bulgaria e da poco anche il Lussemburgo, per quanto riguarda l’Europa, hanno vietato le operazioni di fracking. Negli Usa anche il piccolo Vermont l’ha fatto, insieme a città come Buffalo e Pittsburgh. Ma la polemica ribolle ormai in tutti gli Stati dell’Unione, toccando cittadini, politica e comunità scientifica, oltre a essere diventata la nuova frontiera dell’attivismo ambientalista. Le critiche al fracking vanno dal possibile inquinamento delle falde acquifere, a causa dei solventi chimici utilizzati (i fautori della fatturazione idraulica lo escludono, trattandosi di scavi ben più in profondità delle stesse falde e con tubi protetti da super armature di cemento), al danneggiamento dell’assetto idrico del territorio, per l’enorme quantità di acqua necessaria alle operazioni, alla distrazione di attenzione e risorse dalla ricerca sulle fonti di energia rinnovabili, alla possibilità di attività sismiche indotte dalla fatturazione delle rocce e dal pompaggio stesso dell’acqua (quest’ultima accusa è stata ventilata anche in Italia, in occasione del sisma in Emilia, ma se le compagnie petrolifere operanti nella zona hanno escluso l’utilizzo del fracking, anche il dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Modena e Reggio Emilia ha precisato che nessuna attività di estrazione può causare terremoti di intensità pari a quelli avvenuti). Quello che però rende il quadro diverso da altre grandi battaglie ecologiste, almeno negli Usa, è che stavolta i "nemici" non sono solo le grandi corporation, da Exxon Mobil a Chevron a Royal Dutch Shell, ma una miriade di imprese di piccola e media dimensione che si sono gettate per prime sulla torta. E soprattutto il fatto che, a differenza della maggioranza dei Paesi europei, dove il sottosuolo è di proprietà pubblica, in quelli americani il proprietario di un terreno lo è anche di quello che ci sta sotto: se una compagnia petrolifera vuole scavare sotto il suo campo di mais, deve pagarlo. E tra lucro e ambiente, decine di migliaia di agricoltori finiscono per preferire il primo.
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