Nelson Mandela e Desmond Tutu durante la cerimonia di accettazione del rapporto finale stilato dalla “Commissione per la verità e la riconciliazione”, il 29 ottobre 1998 a Pretoria (Adil Bradlow/Ap)
«Sapevo che l’oppressore è schiavo quanto l’oppresso, perché chi priva gli altri della libertà è prigioniero dell’odio, è chiuso dietro le sbarre del pregiudizio e della ristrettezza mentale. L’oppressore e l’oppresso sono entrambi derubati della propria umanità. Da quando sono uscito dal carcere è stata questa la mia missione: affrancare gli oppressi e gli oppressori». Con queste parole Nelson Mandela concluse la propria autobiografia scritta durante quasi tre decenni di prigionia e pubblicata nel 1994. La memoria del dolore patito era fin troppo viva in lui e nel resto di quanti avevano subito l’apartheid. Il muro d’odio della segregazione era stato distrutto.
Dietro i calcinacci, ora, spuntavano con chiarezza le sagome dei carnefici e dei loro sostenitori. Per potersi guardare reciprocamente negli occhi, senza i filtri del razzismo e dell’ideologia, occorreva sciogliere finalmente i nodi del passato, saturo di orrori. L’esperienza storica pregressa poneva il Sudafrica di fronte a un bivio. O puntare sull’amnistia generale, una sorta di colpo di spugna per ripartire, o sulla punizione dei colpevoli attraverso i tribunali ordinari. Nessuna di queste due direzioni fu intrapresa. Nei dodici anni tra il 1990 e il 2002, il Paese 'inventò' e sperimentò un modo diverso di giustizia o un modo di giustizia diversa. Di tipo 'riparativo'. A incarnarla la Commissione per la verità e la riconciliazione. Non una corte tradizionale. Bensì un luogo in cui i carnefici (gli aguzzini del regime e i loro complici ma anche quanti, nella lotta antisegregazionista, si erano macchiati di delitti) erano chiamati a dare testimonianza piena, di fronte alla vittime, dei loro atti, compresi i più aberranti. In cambio, potevano ottenere, in una seconda fase, l’amnistia per quanto avevano confessato.
Al di là dell’aver evitato il bagno di sangue e aver interrotto la spirale perversa dei regolamenti di conti, la Commissione, pur con tutti i limiti di un Paese ancora in cammino verso una democrazia matura, ha segnato uno spartiacque. Non solo nella cultura giuridica internazionale. Bensì nella cultura tout court, intesa come ethos delle società. In tale prospettiva ampia scelgono di analizzarla, Luca Potestà, Claudia Mazzucato e Arturo Cattaneo in Storie di giustizia riparativa. Il Sudafrica dall’apartheid alla riconciliazione, edito da Il Mulino (pagine 256, euro 22,00). I tre studiosi dell’Università Cattolica appartengono ad ambiti differenti: Podestà è uno storico del cristianesimo, Mazzucato è una giurista e Cattaneo è un esperto di letteratura inglese. Ad accomunarli, una visione multidisciplinare dell’intreccio tra giustizia, riconciliazione, convivenza nel mondo globale. Interpretata alla luce di quello che il filosofo Tzvetan Torodov definiva «il problema dell’altro». «È dalla scoperta-conquista dell’America, con la prima globalizzazione, che l’Europa inizia a considerare 'l’altro' come nemico. Gli imperi dell’antichità, nonostante il grado di violenza, erano stati inclusivi rispetto alle popolazioni annesse. Le moderne potenze coloniali, al contrario, hanno fatto dell’esclusione il proprio paradigma», sostiene Cattaneo. E aggiunge: «Tale fenomeno assume proporzioni estreme nell’apartheid sudafricana. Per questo, il suo superamento inedito acquista un valore allegorico».
Per esprimere l’opposto del regime segrega- zionista, la Commissione - e il corpus giuridico prodotto in quegli anni - ha voluto e dovuto creare una giustizia in grado di evitare la mimesi del male. Una giustizia che ripara invece di punire, responsabilizzando vittima e carnefice. Poiché il reato non è solo trasgressione a una norma, bensì offesa a una persona da parte di un’altra. In entrambe si incarna il precetto: l’incontro ne ricompone le biografie, dando riparazione all’offeso e obbligando l’offensore a farsi carico del dolore provocato. «È stata 'un’iniziativa profetica'. Con cui non è solo utile ma direi necessario fare i conti in questo momento storico, in cui la cultura dell’inclusione sembra essere stata sostituita da quella dei muri», sottolinea Podestà. L’esperienza sudafricana, dunque, è un messaggio potente per questo tempo di fratture. Poiché riconosce come fondativa per l’io, la relazione con l’altro. Qualunque esso sia. Un concetto che gli africani chiamano ubuntu. 'Non importa quanto diverso, lontano, difficile, scomodo, problematico o 'cattivo' l’altro possa essere: la sua presenza e la nostra capacità di accettarlo, nonostante tutto, costituiscono la nostra stessa umanità. Senza di lui ci perdiamo. Senza di lui, non posso essere io. L’affermazione dell’ubuntu, della centralità della relazione laddove c’era stata massima separazione, è stata la vera vittoria sull’apartheid», aggiunge Mazzucato.
A dare un risalto ancora maggiore al 'caso Sudafrica', il fatto che siano state le vittime, una volta ottenuto il potere, a 'fare il salto', in nome della coerenza per ciò per cui avevano lottato: uguali diritti e piena cittadinanza a tutti, a partire da quanti le avevano troppo a lungo negate loro. È quest’ultima la «mite vendetta» di cui parlava Albie Sachs, giurista-simbolo della lotta anti-apartheid, in cui aveva perso un braccio. «L’idea dell’occhio per occhio, dente per dente, braccio per braccio mi riempie d’angoscia - affermava -. È questo ciò per cui combattiamo? Un Sudafrica pieno di gente senza braccia e senza occhi? C’è un’unica vendetta che può mitigare la perdita del mio braccio ed è di natura storica: la vittoria di ciò per cui abbiamo lottato, il trionfo dei nostri ideali».