domenica 24 luglio 2022
«Dopo le guerre, il Vecchio continente è un disincanto. C’è stato uno scivolone dovuto alla civiltà razionale, ora va evitato il crollo». Il giudizio del “Socrate di Praga” in 13 carnet finora inediti
Jan Patočka (1907-1977)

Jan Patočka (1907-1977) - Jindřich Přibík/Archív Jana Patočky/WikiCommons

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«Non si tratta né più né meno che di lasciare i pensieri arrivare, seguendo la loro crescita naturale. La modalità di esposizione filosofica, con la posizione dogmatica del problema, la sua discussione e la sua soluzione, difficilmente lascia intuire l’opera propria del metafisico, la sua vita personale di filosofo, le sue lotte, le sue défaillance e le sue riprese, nascondendo ciò che è in gioco nella scelta della vita filosofica: non l’happy end di una soluzione discorsiva, ma l’happy beginning di una fondazione radicale, di un esame approfondito di sé e degli altri che raggiunge finalmente un’altitudine mai raggiunta prima, da cui abbracciare con lo sguardo, come le valli dalle cime delle montagne più alte, i problemi», scrive Jan Patočka in una nota dedicata a Gabriel Marcel, in uno dei tredici carnet, pubblicati da poco nella loro interezza, in anteprima mondiale, dall’editore parigino Vrin ( Carnets philosophiques 1945-1950, pagine 862, euro 38,00).

Di questi quaderni, di cui solo i primi due erano già stati pubblicati in ceco insieme alle opere complete di Patočka, era nota l’esistenza da circa vent’anni. Comparabili ai Quaderni e diari di Hannah Arendt o ai discussi Schwarze Hefte di Heidegger, sono stati ritrovati nel fondo manoscritto depositato dallo stesso Patočka nel giugno 1971, poco prima del suo addio forzato all’università, presso l’Archivio letterario del Memoriale della letteratura nazionale di Praga. Patočka, nato nel 1907, è un filosofo che di accademico ha ben poco anche se può legittimamente annoverarsi tra le vette della filosofia del Novecento. Egli ha pagato, lungo tutto il corso della vita, il prezzo delle sue scelte politiche e ideali. Sospeso dall’insegnamento una prima volta durante l’occupazione nazionalsocialista, nel 1939, quando le università ceche furono chiuse, fu nuovamente espulso dalle aule accademiche dai comunisti giunti al potere, nel 1949. Le prese di posizione ideali non lo privarono solo del lavoro, ma anche della rete di relazioni, dei rapporti e poi della vita. Morirà a Praga nel 1977, in conseguenza di un pesante interrogatorio perpetrato ai suoi danni dalla polizia del regime nello stesso anno di diffusione di Charta 77, la maggiore iniziativa di dissenso della Cecoslovacchia, di cui fu portavoce insieme a Vaclav Havel.

Durante la stesura di questi quaderni, a partire dal 1945, Patočka riprende a insegnare, ma il momento non è facile. Lo stato di salute non è dei migliori, e il sovraccarico di impegni non rende le condizioni favorevoli alla fatica teoretica. E la situazione non migliora dopo il colpo di stato di Praga del febbraio 1948. Di queste traversie rimane traccia nella corrispondenza, riportata dalla traduttrice Erika Abrams nell’utilissimo avvertimento anteposto ai quaderni, ma non nei testi. Nel suo laboratorio di pensiero non si trova eco del travaglio esistenziale o molto poco. Si susseguono tra le pagine note di lettura e riflessioni, un confronto continuo con i filosofi contemporanei e della tradizione. In una delle rare annotazioni di carattere personale, datata 1946, deplora il fatto che la filosofia francese, e ne legge molta, da Merleau-Ponty, a Jean Wahl e Claude Polin, «lo infastidisca molto» e perfino «lo renda infelice », mentre non è così per quella tedesca. Legge Heidegger più volentieri di Sartre, ma ciò non gli impedisce di confrontarsi con l’esistenzialista d’Oltralpe, giudicando aspramente il suo pensiero considerato «un razionalismo fortemente oggettivista con l’aggiunta di un pizzico di mito della libertà».

Il tono dei pensieri muta nel 1947 quando il tema politico appare sempre più evidente. Senza criticare apertamente il regime instaurato in Cecoslovacchia dal 1948, Patočkanon perde comunque l’occasione per sottoporre a severa critica il comunismo considerato un «grande monologo, che non dà la parola a nessuno a eccezione delle sue cellule; tutto il resto è imbavagliato, insensibilizzato al punto da dare l’impressione di una totale assenza di vita». La lettura di queste note mostra un uomo che si interroga sulle possibilità stesse della filosofia nel mondo del dopoguerra, di uomo che dispera «di avere la possibilità di esprimersi come filosofo», sentendosi «un essere diventato quasi estraneo alla filosofia, che non smette mai di ricominciare a pensare però, anche se da dilettante», rimanendo, dinanzi al pensiero, «accovacciato come una lepre». Ma forse non potrebbe essere diversamente se della «vita normale », per il Socrate di Praga, si fa esperienza solo attraverso un’alternanza «puramente contingente » di soddisfazioni e perdite, di piaceri e dolori che si sperimentano a contatto con le cose. Al compimento, per Patočka bisognerebbe pensare «in relazione al mondo stesso», ponendosi «al di là del rapporto con le cose del mondo che vanno e vengono e sono oggetto di semplici incontri». Questa rinuncia al contingente non porta all’angoscia del nulla ma permette di intravedere «la vita stessa, eterna, nel suo splendore e nella sua effusione», che è alla base del movimento di manifestazione di ogni cosa, «dalla pietra all’uomo».

L’autorealizzazione presuppone quindi un’uscita da sé, al di là della vita individuale «chiusa in sé», e un’apertura al «potere» della natura. «L’individuo è certamente solo un’onda sulla superficie della vita, ma la vita non si muove che con tali onde». Tuttavia l’impressione di avere esaurito tutte le forze e i propri sentieri di pensiero è, per Patočka, forse in sintonia con quella che chiama «autosoppressione dell’Europa», di un Europa «spossessata di ogni autorità dalla sua potenza fisica, soprattutto dopo le due guerre, assumendo la consapevolezza che il Vecchio continente non è un incanto ma un disincanto», frutto forse del «grande scivolone mondiale che fa parte del destino della civiltà razionale» a cui però non ci si deve arrendere ma opporsi «con una tensione di tutte le nostre forze perché avvenga senza un crollo, un completo sconvolgimento di tutte le possibilità umane, senza consegnare il mondo al saccheggio del meccanismo universale di centralizzazione generale».

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