giovedì 4 giugno 2009
Vagando tra i padiglioni sembrano andare in scena due facce del medesimo conformismo: quello che coltiva «l'oggetto strano» invece di sfidare il pensiero unico di oggi, che riduce la realtà a gioco virtuale e spettacolare
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Diciamo che Venezia da molti anni non conosceva una ta­le eccitazione a causa del-­l’arte: negli stessi giorni in cui in La­guna si apre la 53esima Biennale d’arte, François Pinault, il magnate francese proprietario già di Palazzo Grassi, presenta con gran sfoggio di mezzi la sua seconda sede museale veneziana, Punta della Dogana, do­ve espone altri pezzi della sua vasta collezione d’arte contemporanea. Qualche giorno fa, inoltre, alla Fon­dazione Peggy Guggenheim si è i­naugurata la mostra dedicata a Ro­bert Rauschenberg e molti altri e­venti 'collaterali' si apriranno di qui a domenica, c’è chi ne ha contati ad­dirittura un centinaio. Tanto daffare è un sintomo di buona salute del­l’arte contemporanea, oppure è tut­ta scena per una realtà che a molti appare invece asfittica? Bisogna prendere atto di una svolta che si è verificata dopo il 2000: la vita, i sui contenuti, la sua visibilità e comu­nicazione, tanti artisti analitici, gente che dà al­la realtà un colore dominante, men­tre sono pochi quelli che sanno toc­care la realtà lasciandola intatta nel suo volto «indefinibile e misterioso». Questa atmosfera si ritrova nel pa­diglione spagnolo interamente de­dicato a Miquel Barcelo, in quello o­landese con videoinstallazioni di Fiona Tan (che pare abbia detto «io cerco qualcosa che è già presente»), nei video del canadese Mark Lewis, dove la luce ritesse magicamente ciò che potrebbe facilmente prestarsi al­la retorica del quotidiano; irrisolto e deludente nell’insieme quello ame­ricano con una personale di Bruce Nauman, uno dei più importanti ar­tisti viventi, che qui rasenta il deco­rativismo; pruriginoso e sociologico quello scandinavo; nell’ordine di un tradizionalismo che ha quasi valen­ze etniche quello iraniano; fiera­mente convinto del proprio status di nuova terra dell’oro mondiale, in­vece, quello degli Emirati Arabi, do­ve si fa sfoggio delle grandi urbaniz­zazioni speculative che hanno coin­volto architetti come Gehry e Nou­vel. In conclusione di questa breve pa­noramica non può mancare un ac­cenno al Padiglione Italia. Si è mol­to criticato preventivamente ciò che poteva venire dalla scelta dei due commissari nominati dal ministro Sandro Bondi, vale a dire Luca Bea­trice e Beatrice Buscaroli, e ci si è sbi­lanciati in vecchie querelle su destra e sinistra. Per carità, bisognerebbe che qualcuno potesse dire onesta­mente che nel resto della Biennale si trovi qualcosa che sia davvero di si­nistra, a parte i proclami dei singoli artisti e la sicumera che sempre ac­compagna una certa parte del siste­ma dell’arte. Il sindaco Cacciari pa­re essersi a tal punto irritato da ispi­rare una contromostra che si inau­gurerà a Ca’ Pesaro. Cose da stra­paese, se non fossimo in mezzo ai si­gnori dell’arte che conta nel mondo. Detto questo, la scelta dei due cura­tori del Padiglione italiano non di­mostra di avere un criterio forte, non compone uno scenario che sia dav­vero competitivo rispetto all’arte che domina il sistema, è privo, in so­stanza, di un chiaro pensiero critico e di scelte coraggiose: ci sono, in pra­tica, molti degli artisti che i due cri­tici hanno già sostenuto anche fuo­ri dalla Biennale, e non si tratta solo di opinabilità delle scelte, qui ci si chiede quale criterio di qualità di­fendano o cerchino Beatrice e Bu­scaroli. Nonostante queste riserve sostanziali, al Padiglione Italia vi so­no alcune opere che escono dall’u­niformità stucchevole di questa Biennale organizzata da Daniel Birn­baum: l’opera di Silvio Wolf, l’instal­lazione con lightboxes di Giacomo Costa e la surreale parete di casset­te di pronto soccorso con sculture in ceramica di Bertozzi & Casoni. In de­finitiva, sia al Padiglione Italia quan­to nel resto della Biennale vanno in scena due facce del medesimo conformismo: quello che coltiva 'l’oggetto strano' invece che sfida­re il pensiero unico di oggi che ridu­ce la realtà a gioco virtuale e spetta­colare. Che sia, questa, la vendetta postuma di «Sua Eccellenza FTM», che quest’anno festeggia il centena­rio della sua più ambiziosa creatura?
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