giovedì 29 dicembre 2016
Sono sempre più numerosi i libri che affrontano i temi del linguaggio in una prospettiva molto concreta che chiama in causa anche le promesse (e gli oracoli) dell’economia e della politica
Con le parole c’è un conto in sospeso
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In un certo senso Donald Trump non ha tutti i torti quando sostiene che le Nazioni Unite sono un posto dove le persone vanno a parlare. Giusto, perché le parole non si limitano a descrivere il mondo, ma lo plasmano, lo trasformano. E questo nessuno dovrebbe saperlo meglio del nuovo presidente degli Usa, che ha fatto del ricorso a un vocabolario sbrigativo e semplicissimo la propria arma vincente fin dai tempi di The Apprentice, il programma televisivo che cinicamente mescolava senso degli affari e visione del mondo. Casomai Trump non risultasse un testimone attendibile, ci si può sempre rivolgere a uno dei maggiori intellettuali contemporanei, l’antropologo Arjun Appadurai. Il suo libro più recente si intitola Scommettere sulle parole (traduzione di Francesco Peri, Cortina, pagine 200, euro 21,00) ed è una personalissima controcronaca della catastrofe finanziaria del decennio scorso. Prima dei numeri, secondo Appadurai, a sconquassare gli equilibri dell’economia mondiale è stato il «cedimento linguistico» ispirato al medesimo principio dei derivati finanziari: l’attenzione si sposta dall’oggetto dell’investimento alle aspettative dell’investitore, ma perché questo accada occcore un linguaggio che sappia ammiccare e promettere, fino ad attribuire un’aura sacrale al mercato e al «desiderio senza fondo» su cui il mercato stesso si fonda.

Alle categorie del sacro fa riferimento, non a caso, anche Alberto Orioli in un altro libro che intreccia questioni economiche e linguistiche. Gli oracoli della moneta (il Mulino, pagine 248, euro 16,00) analizza lo stile espressivo delle Banche centrali, così come si è venuto configurando negli ultimi decenni. Chi si aspetta una sfilza di tecnicismi è destinato a rimanere deluso, perché una delle caratteristiche dei grandi banchieri consiste nel ricorso alla citazione colta, all’allusione obliqua, a un fraseggio che al linguista Tullio De Mauro, autore della prefazione, ricorda addirittura gli enigmi della leggendaria Pizia. Sull’interpretazione del Faust , per esempio, si scatena nel 2012 un duello a distanza fra il presidente di Deutsche Bank, Jens Weidmann, e il suo corrispettivo alla Banca centrale europea, Mario Draghi, che alle sottigliezze del capolavoro di Goethe era stato iniziato dal maestro Guido Carli.

Anche al di fuori dell’ambito economico, però, le parole continuano a cambiare il mondo. Sono un atto politico, perché «capire e, se possibile, intuire il cambiamento è [...] il requisito dei grandi politici», come ricorda lo storico Luciano Canfora in una delle ormai tradizionali “definizioni d’autore” inserite nella nuova edizione dello Zingarelli (a cura di Mario Cannella e Beata Lazzarini, Zanichelli, disponibile in varie versioni cartacee e digitali). Da qui una certa dose di ambiguità, comune alle parole e al cambiamento, il cui discrimine con «la spinta all’opportunismo è piuttosto sottile», avverte ancora Canfora. Nel ritrovato interesse per l’esplorazione del linguaggio si contrappongono infatti due spinte differenti ma non del tutto inconciliabili. Da una parte agisce una tendenza abbastanza nostalgica, rappresentata dal «dizionario delle parole perdute» che l’editore Franco Cesati presenta con un titolo molto ben trovato, Il dimenticatoio (pagine 216, euro 16,00). Qui ci si imbatte in rarità come “reclamista”, nel senso di “arrivista”, o “gargantiglia”, che sarebbe una collana in stile spagnoleggiante (dal castigliano garganta, “gola”). Ma in fondo al volume c’è anche una manciata di pagine bianche, lasciate a disposizione del lettore che voglia accrescere la già ricca lista che da “abbacinare” arriva fino a “zòilo”, ovvero il critico spietato.

E con questo passiamo all’altra tribù, che raduna insoddisfatti e insofferenti. A chiamarli a raccolta sui social network è stato, un paio di anni fa, il poeta Vincenzo Ostuni con la sua caccia alle Paroleorrende. Il risultato, questa volta, non è un libro, ma una collezione di piccole scritte magnetiche – realizzata da Tic Edizioni e subito esaurita – che permettono di combinare tra loro espressioni malauguratamente in voga come “la qualunque”, “colonnina di mercurio” per “termometro” e “lovvo” per “mi piace” (è una deformazione, che vorrebbe essere scherzosa, dell’inglese I love). Con la lingua si può giocare, magari sfogliando Che figura! di Cecilia Campironi (Quodlibet/Ottimomassimo, pagine 64, euro 14,50), che invita a riprendere confidenza con le avventure di Miss Enfasi, Sissi Ellissi, Mama Bisticcio e di tante altre figure retoriche.

Ma una punta di ironia si ricorre anche in Libertà di parole (Pacini, pagine 118, euro 10,00), dove Giovanni Nardi passa al setaccio uso ed etimologia di moltissimi termini, muovendosi con destrezza fra proverbi e prestiti – o, meglio, imprestiti – da altre lingue. Attenzione, però, perché anche nel territorio dell’erudizione l’attualità rimane in agguato. In Storie di parole arabe (Ponte alle grazie, pagine 150, euro 13,50) il medievista Alessandro Vanoli propone un bilancio degli scambi lessicali susseguitisi lungo le sponde del Mediterraneo. Molto belle, in particolare, le notazioni riservate ai diversi modi in cui si può definire una casa in arabo: dar, haram, bayt... D’accordo, non è un libro che piacerebbe a Trump e ai suoi ammiratori o imitatori. Eppure sono proprio loro che avrebbero tanto bisogno di leggerlo.

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