giovedì 24 gennaio 2013
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​Non solo don Gnocchi: sono tanti coloro che hanno iniziato il percorso verso la santità partendo dall’ansa del Don e la via crucis bianca dei soldati italiani, stretti ai fianchi dal gelo e dai cosacchi, non fu soltanto calvario di bestemmie e ferocia, fame e morte, ma produsse anche inaspettati e duraturi frutti di fraternità. Adesso che se ne rammentano i 70 anni, possiamo constatare come la «strada del davai», nelle steppe della Russia, sia lastricata di episodi di eroismo non solo militare e di umana generosità, ma pure di grandissima virtù cristiana; la maggior parte dei quali purtroppo non conosceremo mai, nonostante i capolavori di Mario Rigoni Stern ed Egisto Corradi, Nuto Revelli ed Eugenio Corti e la folta memorialistica dei reduci. La storia di fratel Luigi Bordino è in tal senso particolare in quanto anzitutto non si tratta di un cappellano e neppure di un ufficiale, bensì di un soldato semplice, artigliere della divisione alpina Cuneense. E poi perché – tra quanti reduci della campagna di Russia risultano ora incamminati verso l’aureola – sembra essere anche l’unico ad aver vissuto la prigionia nei gulag. Andrea Bordino (questo il suo nome da laico), piemontese classe 1922, prese la tradotta per la Russia nell’estate 1942 almeno con la fortuna di trovarsi nello stesso reparto del fratello maggiore Risbaldo, che aveva già fatto la guerra in Albania. E sempre insieme i due vissero quasi tutte le vicende successive, anche quando nel gennaio 1943 vennero catturati e imbarcati nelle estenuanti «marce del davai» («Avanti!» in russo: come suonava l’incitamento continuo che le guardie urlavano alle colonne di prigionieri).Andrea, forte fibra di lavoratore e giocatore di pallone elastico, insieme a 8000 italiani dell’Armir finì in Kazakistan nel famigerato Campo 99 di Spassk, a 30 km da Karaganda, una specie di lazzaretto dove venivano ricoverati i prigionieri troppo deboli per lavorare. È soprattutto per merito della ricerca storica iniziata per il processo di beatificazione di fratel Bordino che è stata ricostruita anche la vicenda di quegli sventurati. Ecco per esempio la testimonianza del soldato Pietro Ghione. «Le nostre condizioni fisiche e psichiche erano talmente disastrose che stentavamo a reggerci in piedi. Per tre o quattro mesi Andrea ed io abbiamo condiviso la stessa baracca. Il freddo era tremendo e il cibo scarso, tanto che ci furono episodi di cannibalismo. Noi malati eravamo talmente prostrati che facevamo fatica perfino a parlare. Andrea aveva dei foruncoli nella schiena grossi come uova. Quando si aprivano lasciavano un buco profondo. Soffriva terribilmente, ma non si lamentava».Nella primavera del 1944 i 200 sopravvissuti vengono trasferiti a sud, in Uzbekistan, e i fratelli Bordino si riuniscono. Risbaldo parla bene il russo e si è fatto una posizione, è responsabile della distribuzione del pane nel campo di Paktarol presso Taskent dove coopta il malridotto Andrea come aiutante. Ma Andrea ha ormai un altro interesse: è l’unico infatti che, violando i divieti, ha il coraggio di entrare nelle baracche dei prigionieri contagiosi o moribondi, gli infettivi senza scampo cui si metteva una barriera di calce viva attorno al giaciglio; testimonia Mario Corino: «Ricordo come fosse ora che Andrea, sempre di nascosto dalle guardie, veniva nella baracca a girarci, un po’ da una parte e un po’ dall’altra, per riposarci le ossa indolenzite, per sollevarci un po’ le piaghe. Eludendo i controlli, quindi a proprio rischio, Andrea entrava nella baracca, mi passava una mano sotto la schiena e l’altra sotto le ginocchia e mi portava al gabinetto di peso, servendomi meglio che poteva».Non per niente «Noviziato in Siberia» si intitola la primissima biografia di fratel Bordino, scritta da un confratello subito dopo la morte avvenuta anzitempo nel 1977 per malattia. Rientrato in Italia dopo un viaggio di tre mesi nell’ottobre del 1945 (il fratello arriva un mese più tardi), Andrea non si accontenta di costruire il «pilone», la cappelletta che insieme a Risbaldo aveva fatto voto di edificare al paese se mai fossero tornati a casa, ma sceglie di seguire una sorella che si faceva religiosa nel Cottolengo entrando nell’istituto torinese insieme a lei. E nella Piccola Casa della Divina Provvidenza fratel Luigi della Consolata restò vent’anni, assumendo anche incarichi di responsabilità e non parlando quasi mai della esperienza bellica. Solo il modo caratteristico da lui usato per sollevare i malati rimase sempre quello imparato in Uzbekistan.Nel 1994 un altro reduce, il «sergente nella neve» Rigoni Stern, ha scritto un articolo sulla sua storia: «Nei momenti estremi di sofferenza fisica, quando la morte agita sopra di te le sue ali e tutto intorno ti dice che non c’è speranza, ricorri alla preghiera. O alle maledizioni. L’ho visto e provato. Chi supera la prova nasce un’altra volta. Ma con coscienza. Due fratelli in Russia, artiglieri della Cuneense, nella notte dei morti congelati, si stringono vicini e sopravvivono. Promettono una cappellina alla Consolata. Ma Andrea, il più giovane, quando ritorna dalla durissima prigionia, fa di più: bussa alla porta del Cottolengo. Ha vissuto ogni dolore umano e ora al dolore umano decide di dedicare il resto della sua vita. È lì, dentro le mura del Cottolengo per dare una mano ai più appartati e ai più disgraziati umani. Ed è nato per la terza volta».
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