mercoledì 29 dicembre 2010
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Decisamente deludente questo 2010 per quanto riguarda la narrativa italiana, dove sono maggiori i segnali di appiattimento rispetto a quelli di rinnovamento. La narrativa di casa nostra non solo dimostra una situazione di calma piatta, ma accentua maggiormente quel carattere di asservimento sempre più evidente alle leggi di mercato, il che significa che non si scrive più perché si ha in testa una bella storia o perché si vuole raccontare la realtà o per affrontare temi grandi o anche minimi, ma si pensa al libro seguendo certe regole (variabili a seconda delle richieste) che vengono imposte dagli editori o da inaspettati "best-seller" che ognuno vorrebbe in qualche modo clonare. Facciamo un esempio: solo quindici anni fa libri di culto come il Jack Frusciante di Brizzi o il Va dove ti porta il cuore della Tamaro, avevano sì trovato qualche tentativo di emulazione di temi e di scrittura, ma non era mai successo come negli ultimi anni che un libro modesto, ma dalle vendite stratosferiche, come La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano, storia che va a toccare sentimenti forti ed emozioni di superficie, diventasse il traino di un nuovo genere letterario. Dopo il "romantico" in rosa e il mistero nel "giallo", ecco farsi strada in Italia, il "sentimentale esasperato", che potremmo connotare come "il rosso", visto che la sua finalità è quella di esasperare le emozioni. Come avviene nelle fiction televisive, dove tutto viene semplificato.Ecco così che la caccia al nuovo Giordano è stata aperta e i romanzi scritti a tavolino per ripetere l’exploit sono passati senza lasciare tracce memorabili: quasi tutti uguali con le loro storie di adolescenti in crisi, di malattie inguaribili, di populismo a buon mercato, di tanta retorica strappalacrime. E non si salva nemmeno colei che ha dominato le cronache culturali di quest’annata, l’esordiente che avrebbe dovuto vincere, secondo i pronostici, il Premio Strega, ma che è restata a bocca asciutta, anche se un po’ di copie le ha vendute, con una storia di ragazzine in un quartiere operaio. Parliamo di Acciaio di Silvia Avallone, pubblicato da Rizzoli, storia "populista", un po’ da cartolina, delle "periferie industriali". Chi ha affrontato invece il lavoro in modo serio è uno scrittore giovane, che non ha mai seguito mode, ma la naturalità del suo mondo imponendosi come uno dei migliori narratori di oggi, Cristiano Cavina. Con Scavare una buca (Marcos y Marcos), ci racconta la storia dura (e vera) del lavoro nella cava, nella polvere. Ed è senz’altro tra i risultati migliori di un’annata magra, all’insegna del libro irrisolto: c’è molto che non funziona nel Cimitero di Praga di Umberto Eco; ci sono zone di cedimento anche in romanzi che hanno un solido nucleo tematico come Un tuffo nella luce di Gabriele Romagnoli (Feltrinelli) o I giorni nudi di Claudio Piersanti (Mondadori). Si conferma invece la forza di due narratori appartati e poco riconosciuti, di generazioni diverse, come Sebastiano Nata che con Il valore dei giorni (Feltrinelli) ha scritto uno dei migliori romanzi di questo 2010 e Antonio Bassarelli che continua la sua aspra indagine morale con Per questi motivi (Diabasis) così come quella di Antonio Pennacchi, che con Canale Mussolini ha vinto, giustamente, il premio Strega. In controtendenza rispetto alle precedenti, ultime prove narrative, assai discutibili, è invece il nuovo romanzo di Sandro Veronesi, XY (Fandango), una non banale interrogazione narrativa sul tema del male.Dal punto di vista sociologico va segnalato un fenomeno assai curioso che la dice lunga sull’adattamento della scrittura letteraria in Italia ai modelli della fiction televisiva: la maggior parte degli autori che hanno esordito nel 2010 non sono nuovi alla scrittura, ma arrivano direttamente dal cinema. Sono tutti sceneggiatori. Così ci troviamo di fronte a tanti scrittori di mestiere che sembrano mettere a punto storie commissionate. Il vero talento non è ancora emerso, in questo campo, anche perché uno dei migliori esordi di quest’anno è stato Emmanuele Bianco con Tiratori scelti (Fandango), che solo dopo il libro ha deciso di lavorare per il cinema. Altro esordio da ricordare quello di Antonella Lattanzi con Devozione (Einaudi), un viaggio senza reticenze nell’inferno della "nuova" eroina, esempio di come la realtà possa diventare "parola" forte, senza essere caricata di luoghi comuni. Come una conferma viene da Pietro Grossi, con il racconto lungo Martini (Sellerio), un esercizio di stile che conferma la bravura di un nuovo autore. Pollice verso invece per il sopravvalutato Christian Frascella (Fazi) che nemmeno nel nuovo Sette piccoli sospetti riscatta la debolezza del suo romanzo d’esordio, Mia sorella è una foca monaca: un titolo, un programma.Non sono bastati nemmeno i soliti salti al di là della barricata, quelli che fanno i critici scrivendo anche loro un romanzo, tanto più che quest’anno sono scesi in campo due "firme" di vasto richiamo come Emanuele Trevi con Il libro della gioia perduta (Rizzoli), titolo che sintetizza un’altra mania editoriale "post-Giordano", quella dei titoli "latte e miele", che viene applicata sempre più spesso anche ai libri tradotti dall’estero, stravolgendo quelli originali, e di Antonio D’Orrico con Come vendere un milione di copie e vivere felici, titolo che riassume i desideri della letteratura di oggi. Un tempo si voleva essere grandi scrittori; oggi, prima di scrivere un libro, ci si guarda allo specchio sperando di trovarvi la propria faccia camuffata da Paperon de’ Paperoni. I tempi cambiano e anche i valori.A salvare un’annata stagnante sono state le scrittrici: Marta Morazzoni che con La nota segreta (Longanesi) ha scritto uno dei suoi romanzi più intensi; Licia Giaquinto, molto più brava della premiata al Campiello, Michela Murgia, con le sue storie, raccontate in La ianara (Adelphi) di un sud ancestrale, sorrette da una lingua viva e vibrante e una scrittrice vera, mai riconosciuta come tale, ma autrice di monologhi che hanno fatto grande il teatro italiano, come Franca Valeri che chiude in bellezza e con speranza quest’annata letteraria con un racconto, Bugiarda no, ma reticente (Einaudi) che è una divagazione ironica, sorprendente, degna del miglior Arbasino.E il meglio è venuto proprio quando i narratori hanno parlato di sé, camuffando nella propria esperienza, il malessere della realtà: l’accorata difesa delle proprie radici di Edoardo Nesi in Storia della mia gente (Bompiani), il diario in pubblico di Ferruccio Parazzoli, Il paese delle cornacchie (Ares), le "cronache dal risveglio" di Antonia Arslan, in Ishtar 2 (Rizzoli) e il viaggio "sentimentale" nell’Italia dei "classici della letteratura" di Eraldo Affinati, in Peregrin d’amore (Mondadori).Se l’annata letteraria boccheggia, meglio guardare "indietro" e cercare tra i "piccoli capolavori" dimenticati: il 2010 segna il ritorno dei "classici" dimenticati del Novecento, con due collane da Isbn e Marsilio e la riscoperta di autori da rileggere: Angelo Fiore, il Bacchelli che va oltre Il mulino del Po, Francesco Jovine e gli anni Sessanta del grande vecchio che ci stupisce sempre, Manlio Cancogni.
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