giovedì 9 maggio 2013
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Promosso dall’Accademia di Studi Storici Aldo Moro si tiene a Roma da oggi all’11 maggio a Palazzo Marini il convegno sul tema «Studiare Aldo Moro per capire l’Italia». L’idea è di tracciare un primo "stato dell’arte" della ricerca storica su Moro e raccogliere indicazioni per orientare quella futura, in chiave interdisciplinare, nella prospettiva delle celebrazioni del centenario della nascita, che si terranno nel 2016. Si tenta insomma una più sistematica ricerca storiografica volta a recuperare una complessiva visione dell’esperienza umana e politica dello statista, troppo spesso appiattita sulle drammatiche vicende che segnarono la sua morte. Il convegno prevede la partecipazione di oltre cinquanta storici da numerose università. L’introduzione è affidata ad Alfonso Alfonsi e sarà seguita da un panel introduttivo presieduto da Renato Moro, con le relazioni di Maria Salvati, Francesco Malgeri, Paolo Pombeni, Agostino Giovagnoli, Alberto Melloni e Luciano Andrea. Qui ospitiamo alcuni stralci degli interventi di Malgeri e Giovagnoli.Eletto deputato nelle elezioni del 18 aprile 1948, Aldo Moro entrava nella vita politica nazionale come espressione della seconda generazione di democratici cristiani, che proveniva in gran parte dalla Fuci e dai Laureati cattolici e si riconosceva nel sodalizio dossettiano, cementatosi nel comune lavoro vissuto alla Costituente. Tuttavia in Moro l’adesione alla corrente di Cronache sociali e successivamente di Iniziativa democratica, al di là delle affinità che lo legavano ai suoi amici, non ebbe mai atteggiamenti fideistici e apparve sempre subordinata all’esigenza di una piena autonomia di giudizio. Fu questa autonomia che lo portò a stabilire un rapporto di collaborazione e di condivisione delle scelte politiche di Alcide De Gasperi. Moro individuò nell’opera di De Gasperi un «vitale e permanente insegnamento»: in particolare la ferma opposizione sia al totalitarismo d’ispirazione sovietica che alla destra reazionaria e neofascista. Condivise l’idea di un partito di centro «che con strumenti responsabili, equilibrati e di libertà si propone finalità di profondo mutamento della società italiana e dello Stato». Nell’opera di De Gasperi individuò «un profondo impegno per l’allargamento della base democratica dello Stato». Ma soprattutto colse in De Gasperi la capacità di muoversi in condizioni difficili, identificando «i tratti di mare nei quali avrebbe potuto navigare e gli scogli contro i quali avrebbe potuto infrangersi». Moro ha spiegato più volte, anche in anni successivi, le motivazioni del suo consenso al centrismo. Il 27 luglio 1953 in difesa del tentativo di dar vita al governo De Gasperi, definì la politica perseguita dalla Dc «una politica democratica, una politica di mediazione di diverse esigenze, una politica di garanzia della libertà, […] una politica umana». Ribadì il suo giudizio nel XII congresso della Dc il 9 giugno 1973. A suo avviso la scelta centrista degasperiana aveva svolto la funzione di «esorcizzare tentazioni sempre incombenti sulla Democrazia cristiana». In altre parole il centrismo garantiva al partito di contrastare «l’integralismo nel quale la democrazia cristiana poteva impigliarsi sia per il suo bagaglio ideologico, sia per la forza elettorale sulla quale era fondato il suo potere». L’esperienza di Moro negli anni del centrismo e del neocentrismo si concluse alla fine degli anni Cinquanta, con la sua elezione alla segreteria politica della Democrazia cristiana e soprattutto con la sua relazione al congresso di Firenze del 1959, ove pronunciò uno dei suoi più significativi discorsi politici, che di fatto segnava il passaggio verso una nuova fase della vita politica nazionale. Un discorso nel quale prendono corpo le tematiche care al progetto moroteo, in particolare, la sua visione sulla natura popolare della Dc, sulla ricerca di nuovi equilibri politici e sulla esigenza di ampliare la base democratica dello Stato. Riaffermò «l’impegno a dare un contributo concreto alla libertà, a renderla effettiva; nella partecipazione ai beni dell’economia, della cultura e dello spirito»: La prospettiva di Moro si apriva alle suggestioni di una grande svolta democratica e civile: «Nessuna persona ai margini, nessuna persona esclusa dalla vitalità e dal valore della vita sociale. Nessuna zona d’ombra, in un ritmo graduale, armonico, universale di ascensione». In questa apertura è possibile cogliere la sua ansia di offrire a tutti il senso profondo della cittadinanza, della appartenenza a una comunità nazionale che non discrimina, ma a tutti riconosce pari dignità e pari diritti. In altre parole, precisò Moro, si trattava del «problema immane della piena immissione delle masse nella vita dello Stato», della costruzione di uno Stato che fosse espressione di tutti i cittadini, di uno Stato riconciliato con le masse: «non lo Stato di alcuni, ma lo Stato di tutti». Questo progetto verso una nuova fase politica non rappresentava, per Moro, la negazione del passato. Anzi, volle rievocare l’opera di chi lo aveva preceduto nella guida della Dc, da De Gasperi, a Piccioni a Cappi a Taviani a Gonella a Fanfani, a coloro che avevano guidato i governi del Paese, da De Gasperi a Pella a Scelba a Segni a Zoli a Fanfani. In altre parole, Moro manifestava l’esigenza di spingere il partito verso il compimento della democrazia, senza mai mettere in discussione la continuità storica dell’azione politica svolta dalla Dc. «Nessuna di queste esperienze - affermò - è stata vana... Tutte possono coesistere nel partito, ne sono anzi la ricchezza".
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