martedì 3 gennaio 2017
Il pontificato riformatore di Paolo VI nel dialogo con i vari modi di essere e di esistere dell’umanità Per i cinquant’anni della “Populorum progressio”
Montini ansia per il mondo
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Ogni pontificato ha un proprio carattere e segna la storia della Chiesa nel suo rapporto con la società. Il pontificato di Paolo VI, che verrà ricordato quest’anno per il 50° anniversario della Populorum progressio, è quello che più ha aperto l’orizzonte dell’universalità della Chiesa nell’epoca dei diritti umani e della globalizzazione. Il testo pubblicato per le edizioni Marietti, e curato da Giovanni Maria Vian, Giovanni Battista Montini. Un uomo come voi, presenta testi scritti direttamente da Montini, quasi a sottolineare l’impronta anche personale e psicologica dell’autore.

Essi riflettono la tensione tra l’umanità di Montini e il suo guardare in alto, alla dimensione spirituale, alla Chiesa, alla storia dell’umanità. Anche per questo, proclamandolo beato nel 2014, papa Francesco ha reso grazie per la sua «profetica testimonianza». Scrivendo a 17 anni al compagno di classe Andrea Trebeschi, morto nel campo di Mathausen nel 1945, Giovanni Battista Montini esprime l’ideale che lo sta catturando, perché «la mia vita passerà rivolta in alto», mentre a conclusione del primo conflitto mondiale scrive al fratello Lodovico che è «una conseguenza logica della nostra fede quella di credere nel significato degli eventi». La ricerca di senso della storia lo accompagna sempre: quando muore Benedetto XV, il giovane Montini riflette su quella «umanità che non sa di vivere se non quando muore» e invece è chiamata dalla speranza cristiana a un traguardo nuovo, per il quale non si muore più davvero, si è «destinati a una vita immensamente più intensa» nella paternità di Dio. Quest’orizzonte giovanile si coniuga nel sacerdozio con l’opera di Paolo di Tarso, alla quale dedica sette articoli nel 1931 sulla rivista 'Studium'.

Di san Paolo coglie l’invito a evangelizzare tenendo conto delle condizioni di ciascun popolo, perché la «larghezza del campo da conquistare consente anche una certa larghezza di metodi apostolici», cioè «quel tale adattamento, nel linguaggio e nelle forme di presentare la verità della fede», giungendo a «valorizzare perfino la religiosità pagana per farla sboccare nella religione cristiana». È un’anticipazione d’interculturalità, che chiede di «conservare il tessuto etico-psicologico corrispondente alla morale naturale e alle profonde tendenze religiose dell’ambiente, per inserirvi (con la 'naturalezza' cara a Blondel) il soprannaturale». Di qui la sorprendente conclusione di Montini, che definisce la visione paolina «una visione ottimistica, praticamente larga e liberale del mondo, derivata dal criterio di misericordia che il cristianesimo instaura per guarirlo». L’universalismo è una costante nella vita di Montini, e diviene la base programmatica del suo pontificato. Già nel 1957, prepara la Missione di Milano con una riflessione su coloro che sono lontani.

E formula domande scomode: «Quando si avvicina un lontano, non si può non sentire un certo rimorso. Perché questo fratello è lontano? Perché non è stato abbastanza amato. Perché non è stato abbastanza curato, istruito, introdotto nella gioia della fede». I lontani, «sono spesso più esigenti che cattivi. Talora il loro anticlericalismo nasconde uno sdegnato rispetto alle cose sacre, che credono in noi avvilite. Ebbene, se così è, fratelli lontani perdonateci». E il primo pensiero di Paolo VI come pontefice, è di attuare un programma che universalizzi l’azione della Chiesa per portarla fino ai confini della terra, seguendo i tre cerchi concentrici di cui parla nell’enciclica Ecclesiam Suam del 1964. Il primo cerchio è proprio quello di chi non riconosce Dio, ed è tanto grande che non se ne vedono i confini perché questi si confondono con l’umanità intera e riguarda anche coloro che non credono, ma che spesso aspirano all’infinito, lo anelano, anche con passione e tensione interiore. Il secondo cerchio, è quello degli uomini innanzitutto che adorano il Dio unico e sommo, quale anche noi adoriamo. Il terzo, infine, è quello «del mondo che a Cristo s’intitola», cioè di coloro che si riconoscono nella fede cristiana, anche se professata in Chiese e comunità cristiane separate. Quest’ansia di parlare a tutti porta a gesti nuovi, ad esempio a incontrare gli artisti, ai quali dice: «Noi abbiamo bisogno di voi. Il nostro ministero ha bisogno della vostra collaborazione».

Perché «il nostro ministero è quello di rendere accessibile comprensibile, anzi commovente, il mondo dello spirito, dell’invisibile, dell’ineffabile, di Dio. E in questa operazione, che travasa il mondo invisibile in formule accessibili, intelligenti, voi siete maestri. È il vostro mestiere, la vostra missione; e la vostra arte è proprio quella di carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola di colori, di forme , di accessibilità». E aggiunge con sincerità e sensibilità sue proprie: noi «siamo sempre stati amici. Ma come avviene tra parenti, tra amici, ci si è un po’ guastati. Ci permettere una parola franca? Voi ci avete un po’ abbandonato, siete andati lontani, a bere ad altre fontane, alla ricerca sia pure legittima di esprimere altre cose, ma non più le nostre».

E per essere ardito, conclude, «riconosciamo che anche noi vi abbiamo fatto un po’ tribolare (…), vi abbiamo imposto come canone primo la imitazione, a voi che siete creatori, sempre vivaci, zampillanti di mille idee e di mille novità»; «vi abbiamo talvolta messo una cappa di piombo addosso, possiamo dirlo; perdonateci!». Infine, l’universalità della storia, la storia d’Italia e quella dei popoli, suggerisce a Paolo VI parole e gesti bellissimi. Già nel 1962, ancora cardinale, parla in Campidoglio alla vigilia del Concilio Vaticano II, ed evoca la fine del potere temporale e l’unità d’Italia avvolgendoli nei disegni della Provvidenza, perché nel 1870 questa ha disposto diversamente rispetto ai voleri degli uomini, e ha «quasi drammaticamente giocato negli avvenimenti»: «il Papa che usciva glorioso dal Concilio Vaticano per la definizione dogmatica delle sue supreme potestà spirituali nella Chiesa di Dio, e usciva umiliato per la perdita delle sue potestà temporali nella stessa sua Roma».

Eppure, aggiunge, proprio allora il papato, liberato delle potestà temporali, raggiunse un’altezza nel governo spirituale della Chiesa nell’irradiazione morale nel mondo, come mai era accaduto prima. E nel 1964, parlando al Quirinale con un discorso che non è contenuto nel libro, riassume il rapporto tra papato e storia d’Italia: «Noi vogliamo bene, un bene spirituale, tutto pastorale, oltre che naturale a questo magnifico e travagliato Paese; (e) non dimentichiamo i secoli durante i quali il papato ha vissuto la sua storia, difeso i suoi confini, custodito il suo patrimonio culturale e spirituale, educato a civiltà, a gentilezza, a virtù morale e sociale le sue generazioni, associato alla propria missione universale la sua coscienza romana e i suoi figli migliori».

Quell’educazione a civiltà, gentilezza e virtù, costituisce una sintesi storica inarrivabile, scaturita dalla mente e dal cuore di Paolo VI. Questa capacità di lettura universale porta Paolo VI a dialogare con le religioni, incontrando buddisti e induisti, visitando Gerusalemme e la Palestina, a chiudere la divisione secolare con l’Oriente ortodosso incontrando il patriarca ecumenico Atenagora nel 1964, infine, nel 1965, a presentarsi all’Onu con un discorso che pone l’azione della Chiesa a servizio dell’umanità. Non era facile in quegli anni parlare alle Nazioni Unite, ma le parole sono quelle che aprono un’epoca. «Il nostro messaggio – afferma il Papa – vuol essere, in primo luogo, una ratifica morale e solenne di questa altissima Istituzione» anche perché essa «rappresenta la via obbligata della civiltà moderna e della pace mondiale». E aggiunge, con sottile analogia: «Voi siete un ponte fra i popoli», e «la vostra caratteristica riflette in qualche modo nel campo temporale ciò che la nostra Chiesa Cattolica vuol essere nel campo spirituale: unica e universale».

E conclude: «Signori, voi avete compiuto e state compiendo un’opera grande: l’educazione dell’umanità alla pace. L’Onu è la grande scuola per questa educazione. Quando voi uscite da questa aula il mondo guarda a voi come agli architetti, ai costruttori della pace». Nella ricorrenza della Populorum progressio, quest’anno, si realizzeranno diverse iniziative di analisi, e si avrà modo di riflettere sui tanti risvolti di un pontificato che è stato forse il più grande papato riformatore della modernità, e nel quale la personalità di Paolo VI s’è amalgamata coi grandi obiettivi di un’opera che ha aperto la strada alle realizzazioni e innovazioni dei suoi successori.

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