sabato 24 marzo 2018
Simboli antichi rintracciabili in tutte le tradizioni, tra il Minotauro e la Gerusalemme celeste. Sono parte della nostra cultura e del nostro inconscio. Ne parla il libro “Miracoli e leggende”
Il labirinto della cattedrale di Chartres

Il labirinto della cattedrale di Chartres

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Anticipiamo in queste colonne un estratto dal libro di Carlo Lapucci Miracoli e leggende. Le radici del religioso nei riti, nelle feste e nelle preghiere popolari (Edb, pagine 262, euro 20,00). Volume frutto di un lungo lavoro condotto, nel corso di anni, per cercare e spiegare i motivi dai quali più frequentemente prende avvio la riflessione sulla trascendenza per proseguire verso la dimensione religiosa. Pur nella loro semplicità, infatti, riti, usi, preghiere e leggende hanno attraversato i secoli favorendo una lettura spirituale del mondo e una considerazione dell’ordine naturale come un codice da comprendere. Lapucci, saggista e scrittore, ha spesso approfondito i temi delle tradizioni e della religiosità popolare.

Di solito i miti antichi finiscono per diventare giochi. Il gioco dell’oca, come quello della campana, ha la configurazione di un percorso iniziatico di tipo labirintico. Nell’Egitto più antico era assai diffuso un gioco simile detto del serpente Mehen, che era disegnato sopra una tavola rotonda avvolto a spirale con la testa nel centro. Venivano usate pedine che si facevano avanzare verso la meta con birilli e sistemi di sorteggio, cosa che rimanda a riti divinatori, se non religiosi, ma anche a una specie di labirinto a spirale. L’uso di questo asterigma nel mondo religioso è diffusissimo. Il simbolo si trova frequentemente nelle nostre chiese antiche, anche sotto il portico del duomo di Lucca, passando dal paganesimo al cristianesimo diviene il segno del difficile viaggio verso il paradiso: al centro dei meandri non più il Minotauro, ma la Gerusalemme celeste. Ci portiamo incise nella mente delle tracce come solchi che periodicamente divengono inavvertibili, ma, come i solchi invisibili della terra diventano rigagnoli e rivoli vivi al cadere della pioggia, vene di vita e di fecondità, così queste nostre antiche tracce si rianimano per comunicare forza creatrice nuova e vitalità che si perpetua nelle forme perenni. Insieme alla sopravvivenza nei giochi e nella simbologia religiosa, i miti ne hanno una nella memoria inconscia, in una strana simbiosi con quella colta codificata nei libri. Fatto è che rispuntano nei momenti più alti della speculazione in modo sorprendente.

Analizzata la teoria dell’inconscio, con meraviglia ci si accorge che lo schema di questa dinamica psichica elaborata da Freud è quella di un labirinto: la struttura che è l’apparato psichico, il Minotauro che è l’antica colpa sotto forma di contenuto rimosso, Teseo nelle vesti dell’analista, la procedura analitica con le libere associazioni, i sogni, i tic, le fobie, che sono il filo d’Arianna. Del resto questa oscura presenza di un intricato percorso dalla posta nascosta, che noi portiamo dentro, e che i primitivi avevano rilevato fisicamente nel sistema delle viscere, è quello che perpetua il fascino del labirinto che è stato ripetuto per millenni nei giardini, negli emblemi, nei giochi e ai nostri tempi nel- le pubblicità. Come gioco o come incubo il labirinto si affaccia qua e là: la struttura dell’esistenza contemporanea, vista nella realtà del nostro tempo, Kafka l’ha individuata in una forma labirintica dalle entrate e le uscite necessarie e impossibili; Maurits Cornelis Escher ha coniugato il labirinto nella sua opera, tanto che si può dire che sia il tema dominante. Il mito, come le fiabe e come quanto sopravvive nei millenni, ha una forza determinante per la struttura del pensiero: non può essere sostituito da nessuna creazione individuale, tanto meno da banali composizioni fatte di buoni sentimenti e di sciocchezze alla moda.

Cancellando le antiche strutture forti si getta via insieme a del vecchiume qualcosa d’importante: s’infligge un duro colpo alla capacità rappresentativa, alla facoltà fantastica, all’accesso all’ordine sintetico e simbolico, che è quanto dire alla capacità di raffigurarsi plasticamente nel pensiero il passato inafferrabile e il possibile sfuggente, che potremmo chiamare anche facoltà di progettazione. La religiosità è un universo che è difficile circumnavigare se la s’intende come esperienza dell’individuo, non facile comunque da definire come fenomeno, difficile da codificare e istituzionalizzare perché mai tutto il fenomeno può essere compreso e stabilito in formule valide per i vari luoghi, durevoli e stabili nel tempo. Ad esempio, il confine tra la religiosità popolare e quella istituzionalizzata è un territorio vasto e molto vago dove i motivi s’intersecano, si attenuano, scompaiono, penetrano da un campo a un altro, rivivono in altre forme, divengono sfumati e inafferrabili. Per fare un esempio, il culto delle immagini è difficile a definirsi nei momenti in cui si manifesta come ortodosso e in linea con il pensiero religioso ufficiale, e quando invece prende la deriva della superstizione, del feticismo, diventando qualcosa d’indefinibile.

Il nucleo profondo, dovuto a costituenti elementari, primari del religioso che appaiono fondamentali e inestirpabili, è costituito dalle manifestazioni semplici della realtà, comuni pressoché a tutte le civiltà, a tutte le tradizioni per cui un sistema simbolico per lo più accomuna i popoli anziché dividerli, basti pensare agli elementi che compaiono nei nostri sacramenti come l’acqua, il fuoco, il sale, l’olio, il vino, il pane, per estendersi ad altri non meno importanti elementi o metafore, come la croce, il sangue, il cielo, l’agnello, la colomba e poi scendendo agli aspetti minori, propri del culto, come il cero, l’incenso, il calice, l’altare, l’immagine, la campana, il tabernacolo.

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