martedì 22 febbraio 2011
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I fascisti "riverniciati", ossia coloro che decolorarono le loro camicie nere per presentarle linde e immacolate di bianco, oppure ritinte di rosso scarlatto, furono moltissimi in Italia dopo il 1943-45. Nella cultura italiana, centinaia di intellettuali che avevano militato in posizioni di avanguardia nelle file del cosiddetto "fascismo di sinistra" (cioè di un fascismo di marca ormai totalitaria, allineato con la Germania nazionalsocialista e depurato di ogni incrostazione liberale), furono reclutati da quel Partito comunista che a metà degli anni Trenta aveva lanciato il suo famoso appello ai «fratelli in camicia nera». Ma non ci fu soltanto la colossale operazione di ripescaggio, compiuta dal Pci nel dopoguerra, della giovane generazione di intellettuali formatasi in quelle "palestre" del regime che furono i Littoriali e i Guf, i Gruppi universitari fascisti: una manovra tanto abile quanto spregiudicata, che consentì a Palmiro Togliatti di "centrifugare" cuore, anima e cervello della "fronda" cresciuta dentro le organizzazioni giovanili del Pnf. Ciò che infatti sembra tuttora sfuggire agli storici è la gigantesca mutazione genetica dei liberali e dei moderati che, durante il fascismo, divennero mussoliniani, salvo poi tornare democratici e antifascisti dopo il 1943-45. Un caso eclatante è quello di Mario Missiroli, uno dei più grandi giornalisti del Novecento italiano. Liberale attento alle istanze sociali e aperto alle nuove correnti del pensiero e dell’elaborazione ideologica (come il vocianesimo, le dottrine elitiste, Sorel e il sindacalismo rivoluzionario), Missiroli fu folgorato da Mussolini come San Paolo sulla via di Damasco. Eppure era partito da posizioni di inconciliabile ostilità al fascismo. Il 14 maggio 1922, mentre era direttore del Secolo, il quotidiano radical-massonico principale antagonista sulla piazza milanese del Corriere della Sera, Missiroli aveva avuto un famoso duello con Mussolini innescato da una furibonda polemica giornalistica. Il capo del fascismo, tacciato di «schiavismo agrario», aveva replicato definendo il direttore del Secolo «perfido gesuita e solennissimo vigliacco». Missiroli reagì all’insulto porgendo il guanto di sfida e convocando i padrini. Lo scontro durò 45 minuti, con sette assalti, e si concluse con il ferimento di Missiroli all’avambraccio. I due avversari non si riconciliarono. Annotò il dottor Ambrogio Binda, il medico personale del Duce che assistette alla tenzone: «Mussolini, sempre violento, attacca. Missiroli è calmo. In guardia, con una magnifica camicia di seta, aspetta ed è ferito. Mi congratulo con lui e mi risponde: "Io non sono uomo di spada, ma di sillogismo"». Il grande giornalista, anni più tardi, "infilzerà" Mussolini con una battuta, definendo «taglio cesareo» la ferita subita. Da nemico acerrimo del movimento squadrista, quel fascismo del manganello e dell’olio di ricino che riuscì ad allontanarlo dapprima dalla direzione del Resto del Carlino e successivamente dal Secolo, Missiroli nell’ottobre del 1925 – cioè nel momento in cui il Duce assestava il colpo decisivo alle libertà statutarie – passò al fiancheggiamento attivo del regime, rompendo l’amicizia con Piero Gobetti. L’uomo che aveva scritto il famoso articolo della «chiamata di correo» nei confronti di Mussolini per il delitto Matteotti, cominciò a magnificare il Duce per la sua politica monetaria ed economica, nonché per le linee strategiche della sua politica estera di distensione internazionale. Che cosa era accaduto? Il "salto della quaglia" di un opportunista, oppure l’infatuazione per la maschera totalitaria del Duce? Né l’una, né l’altra cosa, perché, sottotraccia, Missiroli rimase sempre un filofascista liberaleggiante. Anche quando, nel 1939, celebrò – in ritardo sui tempi della storia – l’Asse come fautore della pace. In un raro volume, ormai praticamente introvabile, La politica estera di Mussolini. Dalla marcia su Roma a Monaco, Missiroli tessé le lodi dei «due grandi condottieri» – il Führer e il Duce – che, è questo il filo del ragionamento, stavano costruendo un avvenire di pace per l’Europa. Viene da domandarsi: come mai un uomo avveduto, colto e di notevole esperienza come Missiroli, era così cieco sulla vera natura del nazionalsocialismo hitleriano, fautore di una politica di potenza e di asservimento dei popoli? Non c’è che una risposta possibile: evidentemente, ancora pochi mesi prima dello scoppio della guerra, agli occhi di un osservatore disincantato come Missiroli, l’Asse aveva tutt’altro che pregiudicato l’equilibrio delle forze in campo nel Continente. L’ex liberale si profonde in elogi del genio di Mussolini e "sdogana" tutto quanto Hitler ha fatto dal 1936 in poi: dall’annessione dell’Austria, allo smembramento della Cecoslovacchia. È soprattutto l’enfasi a colpire. «Grandioso» è l’apporto del Duce alla guerra di Spagna, in favore dei franchisti; «veramente storico» il suo discorso all’indomani dell’Anschluss; «virile» è la franchezza con cui il dittatore si fa largo nella crisi del 1938, felicemente conclusa con l’effimera Conferenza di Monaco, e «infallibile» è l’intuito mostrato nella circostanza. Imbarazzanti le parole di Missiroli sull’alleanza italo-tedesca, che presto sarebbe stata consacrata nel Patto d’Acciaio: «Come gli avvenimenti successivi dimostrarono in modo perentorio, l’Asse Roma-Berlino non va confuso con le consuete combinazioni diplomatiche, che non resistono quasi mai all’urto della realtà. Esso è prima di tutto una posizione storica, l’incontro, sul terreno internazionale, di due Rivoluzioni egualmente totalitarie perché rispondenti a una generale visione della vita». Il dato inconfutabile della propensione totalitaria di Missiroli smentisce in pieno l’interpretazione sul suo percorso culturale implicita nell’opera biografica di Gaetano Afeltra, edita da Bompiani nel 1985. Afeltra sembra voler datare attorno alla prima parte degli anni Trenta il punto di avvio di quel distacco critico che allontanerà il giornalista dal fascismo. Si giunge addirittura a ipotizzare una partecipazione al movimento resistenziale, che mai ci fu, anche se è indubbio che Missiroli si adoperò in prima persona presso gli occupanti tedeschi per salvare molti giornalisti. Se è vero che l’ex direttore del Secolo, ancora nei primi anni Trenta, se la passasse piuttosto male economicamente, tanto da tirare a campare con la pubblicazione di articoli anonimi sugli agrumi, è però altrettanto evidente che, nel 1939, ossia nell’anno in cui scoppiò la guerra, Missiroli poté pubblicare a sua firma un saggio politico. Le "colpe" di questo grande testimone del Novecento – se davvero tali furono – non gli preclusero un nuovo cursus honorum nel dopoguerra, al riparo dal clima di caccia alle streghe che ammorbò la Penisola nel periodo dell’epurazione. Direttore del Messaggero, dal 1946 al ’52, Missiroli assurse poi alla guida del Corriere della Sera fino al 1961. Morì a 88 anni nel 1974.  (1, continua)
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