lunedì 22 luglio 2013
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Se negli anni precedenti il secondo conflitto mondiale Michelucci non ha mostrato nel suo lavoro, almeno esplicitamente, un reale interesse per le avanguardie, nel dopoguerra il lascito di queste, già in parte storicizzato, diviene per lui decisivo. Non tanto, però, sul piano più strettamente architettonico, quanto su quello delle motivazioni che sostengono il lavoro dell’architetto. Formulando le sue idee utopiche sulla ricostruzione dei quartieri distrutti di Firenze attorno al Ponte Vecchio, Giovanni Michelucci rifiuta il centralismo tra tradizione e innovazione, che lo aveva motivato negli anni Trenta e Quaranta, ma anche un uso strumentale e in fondo conformista dei linguaggi “inventati” dalle avanguardie. Solo l’espressionismo, proprio per la sua innata resistenza in quegli anni a subire riduzioni o addomesticamenti, sembra a Giovanni Michelucci, probabilmente interessato ai disegni e alle opere di Hans Scharoun, costituire un riferimento quasi obbligato anche perché, a causa della sua stessa natura “anticomunicativa”, esso implica un conflitto positivo e “rifondativo” con la comunità che dovrebbe accogliere opere difficili da ridurre alla “normalità”, opere colme di una grande energia drammatizzante e di una forte volontà eversiva. Giovanni Michelucci diventa così, nel secondo dopoguerra, un architetto che si ispira a un espressionismo nel quale si avvertono echi organici, senza comunque che egli dimentichi la lezione neoplastica, che compare decisamente in opere come l’edificio per la Famiglia Ventura a Firenze e l’ampliamento della Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia. Al contempo anche i registri formali sperimentati prima della guerra non vengono certo abbandonati. Essi sono riveduti, però, alla luce di un interesse più diretto e concreto alle tradizioni costruttive popolari. Se si pensa alle sue tesi sulla città – la “città armoniosa”, la “città variabile”, la città come “entità organica” – non appare evidente la loro matrice teorica. Le sue posizioni non sono infatti riferibili direttamente alla sociologia, come quelle che facevano capo al movimento Comunità di Adriano Olivetti, che aveva tra i suoi maggiori rappresentanti Ludovico Quaroni, per inciso uno dei sostenitori più convinti di Michelucci. Neanche le riletture urbane di Lewis Mumford, che osservava le città europee con la lente di quelle americane, con tutto ciò che ne derivava, letture allora prevalenti nella cultura italiana – si pensi all’azione di Bruno Zevi, molto influenzato dallo studioso statunitense – furono per Michelucci determinanti. Le teorie sulla partecipazione sembrano anch’esse estranee ai suoi interessi. I progetti urbani avventurosi e tellurici ai quali dette vita in più occasioni non provengono da un confronto diretto con i cittadini, ma cercano il loro consenso a partire da processi tutti interni a una elaborazione autonoma e fortemente autografica di temi urbani. Le stesse idee, ispirate a un cristianesimo originario, di Giorgio La Pira, sindaco di Firenze, promotore dei quartieri di Sorgane e dell’Isolotto, sono state accolte da Michelucci con consapevolezza critica ma non con una autentica condivisione. In sintesi si può affermare che la visione urbana michelucciana, immersa in un forte clima utopico, si è definita attraverso un accentuato sincretismo di diverse posizioni riferendosi, però, non tanto alla condizione reale della città di allora, ma a una sua immagine proveniente da un passato oggetto di una rammemorazione che trapassa sempre, con risultati elevati, dal letterario al poetico. Per comprendere meglio gli aspetti urbani dell’opera di Michelucci va introdotta in essi, come un vettore fondamentale, la categoria del “vitalismo”. Per lui l’architettura non deve “rappresentare” la vita, ma coincidere con essa, Costruire è un’esperienza esistenziale che dovrebbe svolgersi al di fuori e «contro» un quadro di previsioni troppo accurato. Essa consiste in un lavoro incessante fatto di intuizioni quotidiane che nascono dalla concretezza del cantiere, dalla sapienza tecnica delle maestranze, dai materiali, dagli stessi problemi tecnici. Non si tratta di “vitalismo felice” come quello di Giò Ponti o di un “vitalismo sensuale”, quel sentimento di empatia panica che ha animato molte opere costruite nel secondo dopoguerra da Luigi Moretti. Quello michelucciano è un vitalismo tormentato, che si interroga non tanto sulla vita in sé quanto sul suo senso da dare alle “verità ultime”. Tuttavia credere che sia possibile considerare l’architettura un’espressione diretta della vita è semplicemente un desiderio. Tale espressione è anch’essa una “rappresentazione”, vale a dire qualcosa la quale, rispetto alla realtà, implica per necessità, uno scarto, una differenza, una “traduzione”. Come già Scharoun, l’edificio è per Michelucci più sperimentale, un simulacro cosmico in cui non c’è più una netta distinzione tra interno ed esterno. Percorribile fino alle coperture, animato da cavità connesse in sequenze fluide e continue, totalmente “paesistico” nel suo protendersi nell’intorno, l’edificio è nello stesso tempo un “sasso”, un “albero” e una “montagna”. Giovanni Michelucci è pervenuto al grande pubblico con la Chiesa dell’Autostrada, il più celebre dei suoi numerosi edifici ecclesiastici. Questa opera si è sovrapposta alla sua intera attività oscurando del tutto la grande varietà del suo mondo architettonico. Un mondo nel quale non esiste una propensione lineare verso un esito ma un oscillare tra polarità diverse, da un iniziale classicismo a un «razionalismo imperfetto» e da qui, di nuovo, a forme classiche compatte e vigorose, per poi passare, nel secondo dopoguerra, a una rapida e personale assimilazione di tematiche tratte dalle avanguardie, segnatamente dall’espressionismo. Divenuto paradossalmente un’archistar a posteriori, “autore virtuale” di una sola opera, Giovanni Michelucci pone oggi un problema critico di una certa importanza, consistente nel decidere se promuovere la conoscenza di tutto il suo lavoro rimettendone in discussione il valore o se esaltare la sua immagine mediatica, che lo vede come un grande isolato il cui mondo, molte volte “eroico”, si riassume in un gesto espressionista unico e irripetibile.
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