domenica 21 ottobre 2018
Il re delle vette riprende in un libro il “manifesto” lanciato nel 1968: «Se si affronta la montagna con mezzi leali, ogni generazione si troverà davanti a ostacoli insuperabili»
Un giovane Reinhold Messner pronto per una scalata

Un giovane Reinhold Messner pronto per una scalata

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«L’alpinismo è sogno e azione, si compone di possibilità e ne resta sempre una quantità infinita». Mezzo secolo dopo, il “drago” è ancora tra noi e continua a popolare le notti degli alpinisti che gli danno la caccia. Ben sapendo che non lo raggiungeranno mai e che ci sarà sempre un nuovo “impossibile” dietro la prossima parete. Cinquant’anni fa, però, non era così. L’uomo si credeva capace di tutto ed era disposto a tutto pur di salire anche le montagne più repulsive. Alla fine degli anni ’50 è il chiodo ad espansione il mezzo tecnico maggiormente di moda. Nascono così le vie “direttissime” che forzano la parete non seguendone le strutture naturali ma progredendo secondo la linea della “goccia cadente”. E non importa se si devono praticare decine, centinaia di fori nella roccia per piantare i chiodi che consentono la progressione. Per contrastare questa deriva, che pretende di piegare la montagna alla volontà umana, un giovanissimo Reinhold Messner scrive sulla Rivista mensile del Club alpino italiano, nel numero di ottobre del 1968, l’articolo “L’assassinio dell’impossibile”, destinato a diventare un vero e proprio manifesto dell’alpinismo by fear means, con mezzi leali e aprendo di fatto la strada al movimento del Nuovo Mattino. Cinquant’anni dopo, il re degli Ottomila ritorna su quelle tematiche con un nuovo libro, con lo stesso titolo di allora, edito da Rizzoli (euro 24,90), per tirare le somme di quella stagione, con il contributo di 42 giovani e affermati alpinisti, invitati a presentare il proprio personale concetto di “impossibile”. Ne sono uscite 256 pagine di piacevole lettura, punto di partenza per continuare il dibattito. La prima occasione sarà domani sera all’Auditorium della Fondazione Cariplo, a Milano, dove l’alpinista, 72enne, presenterà il libro e ne discuterà con il pubblico.

Messner, che frutti ha dato il seme che lei ha piantato con il suo articolo?
«Allora avevo 22 anni e non potevo neanche lontanamente immaginare che quell’articolo avrebbe avuto una tale risonanza. A quei tempi l’alpinismo era intrappolato in un vicolo chiuso e si pensava che uno sviluppo ulteriore sarebbe stato possibile soltanto facendo sempre più uso di ausili tecnici. Negli stessi anni, invece, stava nascendo in America il movimento del clean climbing e tanti alpinisti avevano cambiato atteggiamento verso la montagna, rinunciando all’impiego massiccio di staffe e chiodi a espansione. Così l’alpinismo è andato avanti e oggi nel mio libro troviamo le risposte di 42 giovani. Sono alpinisti con capacità eccezionali, in grado di fare cose che fino a pochi anni fa sembravano impossibili e sono tutti concordi nel rinunciare all’utilizzo di mezzi artificiali per le salite. Insomma, quell’articolo di mezzo secolo fa ha portato buoni frutti».

Oggi in montagna si trova ancora l’“impossibile”, o le capacità umane si sono a tal punto sviluppate (pensiamo ad Adam Ondra che scala sul 9c o al compianto Ueli Steck che saliva la parete Nord dell’Eiger in poco più di due ore) da rendere possibile anche ciò che apparentemente non lo è?
«L’“impossibile” è vivo e rimane vivo se l’uomo affronta la montagna con mezzi leali, senza barare. Per me Ueli Steck è stato un grande alpinista ma non perché saliva sull’Eiger in due ore, ma perché aveva il coraggio di entrare nelle grandi pareti come un avventuriero, non sapendo come sarebbe andata a finire. Adam Ondra è il più forte arrampicatore del mondo e fa cose che nessun altro è in grado di fare, però anche per lui c’è l’impossibile. La natura è talmente grande, talmente creativa, sempre nuova e l’uomo troverà sempre un ostacolo insuperabile».

Quest’anno ricorrono anche i 40 anni dall’apertura della scala di difficoltà al VII grado, una misura che fino a quel momento era considerata l’“impossibile”. Oggi siamo arrivati al XII grado. Ci sono ancora margini di crescita?
«Da 250 anni in qua, l’alpinismo si sviluppa a partire da questa domanda: possibile o impossibile? E ogni nuova generazione ha tentato e tenterà ancora di rendere possibile ciò che per la generazione precedente era impossibile. Nel 1925 è stato stabilito che la scala di difficoltà fosse al massimo di sei gradi, definendo il VI grado come limite assoluto. Ma nella matematica, come nella filosofia, il limite non è raggiungibile. Per questo motivo ho combattuto a lungo per ottenere ilVII grado, perché altrimenti lo sviluppo dell’alpinismo si sarebbe fermato. Dal 1970 al 1978 ho litigato con tutti ma alla fine ce l’ho fatta e l’Uiaa, la federazione internazionale delle associazioni alpinistiche, ha deciso di aprire verso l’alto la scala delle difficoltà. Oggi il limite è l’infinito».

Con l’“impossibile” dovremo, insomma, sempre fare i conti. Ma dove si nasconde, dove si incontra ancora, oggi, l’avventura se persino sull’Everest hanno tracciato le piste di salita?
«L’avventura è possibile dove non c’è la pista, dove l’alpinista si immerge nella wilderness. In Himalaya ci sono cime di 6-7mila metri, come la Nord del Masherbrum, che è ancora impossibile. In tanti hanno cercato di salirla ma non ci sono riusciti perché i tempi non sono ancora maturi. Bisogna aspettare e, prima o poi, qualcuno riuscirà. Ma se noi, oggi, andassimo a cancellare questo impossibile con dei trucchi, con degli artifici tecnici, ruberemmo alla prossima generazione la possibilità di avvicinarsi sempre di più all’“impossibile”. Quando anche questa montagna sarà stata salita, l’uomo troverà l’“impossibile” da qualche altra parte, sempre se accetterà di sottostare alle leggi della montagna e della natura. Dove ci sono anche i pericoli, che fanno aumentare la nostra paura, perché nessuno vuole morire lassù».

Insomma, il nostro coraggio ci spinge verso l’“impossibile”, ma la nostra paura non ce lo fa raggiungere…
«Coraggio e paura sono le due facce della stessa medaglia. Sono la voce interiore che ci dice: fin qui e non oltre. L’alpinista ha la responsabilità della propria vita e di quella dei compagni di cordata. Sono questi i valori che lo guidano quando si avventura in luoghi pericolosi, dove è la natura che detta le regole e l’“impossibile” regna sovrano».

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