Il “New York Times” ha definito il suo
Frankenstein a Baghdad (da poco uscito per edizioni e/o) un romanzo intriso di “realismo magico” e un “ottimo risultato narrativo”. Tant’è che Ahmed Saadawi, giornalista, artista e scrittore iracheno, nato nel 1973 e ancor oggi residente nella capitale irachena, ha conseguito con il suo primo romanzo il prestigioso Prize for Arabic Fiction, surclassando altri 180 candidati di 15 Paesi diversi. Intervenuto nei giorni scorsi al Festival di Internazionale a Ferrara, Saadawi affronta le questioni più urgenti dell’attualità politica mediorientale.
Il suo romanzo ha tra le questioni affrontate il tema della vendetta. Come si esce da questa spirale di violenza? «Nella cultura irachena la vendetta è una realtà presente da sempre. Purtroppo quando questa pratica si mette in moto non ha mai fine: è un meccanismo senza conclusione e che può durare all’infinito. Nella tradizione popolare questa pratica termina solo quando una persona riconosciuta come saggia dice di smettere, ovvero solo con un forte intervento dall’esterno. A dare l’alt deve essere una persona che fa parte della stessa società ma che al contempo viene riconosciuta dalle diverse parti in causa come superiore. Certamente dall’invasione anglo-americana del 2003, dato che è venuto a mancare uno Stato centrale e sono sopraggiunti caos e anarchia, la vendetta si è molto espansa in Iraq. Sono venute a galla diverse milizie, ad esempio quelle sunnite e sciite, che hanno iniziato a combattersi tra di loro. Le milizie sciite hanno iniziato a vendicarsi di quanto subito da tempo da parte dei sunniti sotto Saddam Hussein. Al-Qaeda ha preso di mira sempre le comunità sciite operando rapimenti e sparizioni. Di conseguenza gli sciiti hanno risposto e rapito persone sunnite solo perché sunnite, appunto per vendetta. Il problema di oggi è questo: dove sono i saggi che con la loro autorità possono mettere fine a questa violenza? Fino ad oggi non vediamo all’orizzonte una razionalità possibile ma solo una terribile follia all’opera. A questo punto nemmeno il ceto intellettuale o gli anziani possono avere voce in capitolo. La violenza ha raggiunto un livello troppo alto».
Nel suo romanzo compaiono figure e vicende delle tre religioni monoteistiche: in che modo le fedi possono contrastare l’estremismo dell’Is? «Storicamente in Iraq c’è sempre stata una buona convivenza tra le diverse religioni. Si è arrivati a contare addirittura 20 diverse confessioni cristiane presenti nel Paese; gli sciiti hanno tre correnti differenti, poi ci sono i sunniti nelle loro varie accezioni, i sufi, e altre sette islamiche. Potremmo parlare per ore della pluralità di fedi in Iraq: per esempio, esistono comunità religiose che sono presenti solo nel nostro Paese. A livello etnico non si contano le comunità: curdi, turcomanni, arabi… una società veramente composita. A Baghdad si trova questo miscuglio di etnie, ed è stato così per oltre mille anni. Ora, da 10 anni a questa parte, è esploso un conflitto pesante. A mio parere la convivenza religiosa può e deve avere la meglio sull’estremismo. Baghdad è la città dai tanti colori, non potrà avere mai solo una sola tonalità: è città curda, araba, cristiana, musulmana… Insomma, è Baghdad! Purtroppo in questi anni la componente estremista dell’islam è più forte di quelle che sanno convivere nella società multireligiosa. E in situazioni come quella che viviamo oggi in Iraq, chi ha più armi vince e comanda. Il futuro dell’Is dipende da cosa intendono fare le diverse comunità religiose: se ognuna sta separata dall’altra, si crea terreno fertile per gli estremisti dello Stato islamico. Se invece le diverse religioni si mettono insieme e lavorano in sinergia, gli estremisti non avranno l’ultima parola. Esiste una speranza di cambiamento ma la società irachena deve allearsi come una sola comunità al di là delle differenze di fede».
Da un milione e mezzo a poche centinaia di migliaia. Il calvario dei cristiani iracheni è sotto gli occhi del mondo, «che si volta dall’altra parte», ha denunciato molto volte papa Francesco. Che fare per proteggere i cristiani rimasti in Iraq? «In mezzo al dramma iracheno, quella dei cristiani, e degli yazidi, è la tragedia più grande. Perché da un punto di vista demografico cristiani e yazidi costituiscono i gruppi più piccoli. E i cristiani – non dimentichiamolo – non hanno costruito delle milizie per difendersi. In assenza dello Stato infatti diverse comunità si sono formate dei propri gruppi armati, ma i cristiani non l’hanno fatto. In teoria ci vorrebbe uno Stato forte per interrompere queste violenze. Probabilmente si potrebbe pensare ad una regione su base federale per i cristiani nella zona di Mosul, quella storicamente più abitata dai cristiani».
L’Europa è alle prese con la questione-profughi dal Medio Oriente in guerra. Spesso si assiste a chiusura e rigidità da parte di diversi Paesi occidentali. Come vede tale situazione? «In due prospettive, una 'umana' e una 'patriottica'. Penso che se una persona vuole partire da dove è nata, è libera di farlo e ognuno deve avere il diritto di trovare la sua strada per una vita migliore. Da un punto di vista interno però vedo che questa emergenza sta creando gravi problemi al nostro Paese, ad esempio: sono i giovani e gli uomini a partire, e se un Paese non può contare sui suoi giovani e i suoi adulti, come potrà avere un futuro? Non me la sento di giudicare il comportamento dei singoli Stati europei, o dire che tutti i Paesi devono aprire le loro frontiere. Ogni Stato ha diritto ad una sua politica interna. È certamente necessario un po’ più di umanità verso quanti fuggono dalla guerra. Anche perché l’Europa non è estranea a quanto sta succedendo in Medio oriente. L’Europa non è le isole Figi: è vicina ai Paesi mediorientali e la sua storia si intreccia con quella di questi Paesi. Se l’Europa si lamenta dei profughi, deve però ricordarsi che la sua storia passata ha avuto molto a che fare con quanto sta succedendo oggi. Per questo deve collaborare maggiormente per risolvere le questioni aperte in Medio Oriente».