martedì 10 ottobre 2017
Il fondatore della Comunità Exodus racconta “amori” e “tradimenti” dei suoi quarant’anni da prete di strada. E parla dell’impegno per strappare i giovani dalla droga e dal disagio sociale
Don Antonio Mazzi, 88 anni, della congregazione dei poveri servi della divina provvidenza

Don Antonio Mazzi, 88 anni, della congregazione dei poveri servi della divina provvidenza

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Due bianche ali di polistirolo che spuntano dietro le spalle, il solito sorrisetto birbante di chi la sa lunga e un cappellino di lana in testa. Nel fotomontaggio che lo ritrae sull’accattivante sovraccoperta turchese dell’autobiografia (da oggi nelle librerie), don Antonio Mazzi, 88 anni, sembra proprio un angioletto. E forse, a modo suo, lo è. La pensano così, sicuramente, le migliaia di ragazzi che nella sua cinquantennale attività missionaria, prima all’“Istituto don Giovanni Calabria” di Ferrara e in seguito nella Comunità Exodus fondata a Milano alla fine degli anni ’70, il sacerdote ha strappato dalle grinfie mortali della droga o da un’esistenza impossibile. E che – quando arriverà il momento – salirà in Paradiso, ne è convinto lui stesso, e non certo per superbia o per orgoglio. «Non ci andrò per colpa mia ma perché tra le migliaia di poveri che ho abbracciato uno mi ha travolto: e ne sono sicuro perché quando l’abbracciai non me ne accorsi nemmeno » spiega don Antonio. Cristo è diventato la sua vita. Il titolo del libro Amori e tradimenti di un prete di strada (San Paolo, pagine 166, euro 16.00) annuncia subito una pubblica confessione senza pregiudizi nè barriere, come nello stile del coraggioso presbitero veronese.

Perché ha deciso di farsi prete e dedicare la propria vita agli altri?

«Perché ero orfano... Per riempire quel vuoto terribile lasciato da mio padre che non ho visto nemmeno sulla foto della lapide del cimitero di Valdobbiadene. Ma ero orfano anche di mia madre vedova, più vicina al marito morto che a noi figli. E orfano di me stesso, disperso dentro il mio carattere e la mia indisciplina. E anche orfano di Dio, quel Dio pieno di candele che mi veniva proposto. Così, a 20 anni, ho deciso di diventare io padre degli altri, più padre che prete, forse... anche se è difficile distinguere le due cose».

E questa sua esperienza le ha dato la forza di capire e di perdonare...

«È ciò di cui hanno bisogno i giovani che vengono accolti nella comunità, portandosi dietro storie sempre più complicate e diverse. Oggi non sono più soltanto tossicodipendenti ma personalmente vuoti, fragili, abbandonati, non capiti, appunto. Vittime di una società guida- ta dagli adulti che livella tutto e svuota, esaurisce. E noi cerchiamo, piano piano, prima di farli respirare, poi di ragionare e infine, dopo un anno, farli credere in sè stessi. Ma se non si riesce a smuoverli in 15 giorni, di solito, vuol dire che non c’è proprio niente da fare».

È più difficile adesso svolgere il suo compito oppure lo era quando ha iniziato, cioè negli anni in cui imperversavano droga e terrorismo?

«Al “Don Calabria” allora, il primo giorno che arrivai, c’erano mille ragazzi. Erano più disperati e violenti di quelli di oggi ma li prendevi più facilmente. Ora invece il sistema ha cavato loro l’anima riempiendo il vuoto rimasto con il portafoglio, lo smartphone, il computer, gli spinelli. E dopo? Sono davvero preoccupato ».

È una grande fatica, vero?

«Non direi. Sono accompagnato. Se non era per il Padreterno non imboccavo questa strada. È l’unica vita che potrei fare. Avevo bisogno di un’avventura, l’ho scelta e la vivo ancora perché ogni mattina non so mai cosa succederà. È così da 40 anni, e le giornate sono sempre diverse».

Qual è il metodo che segue?

«Non terapie ma educazione. Non si salvano i giovani con le medicine. È lo stesso metodo di don Bosco».

Quali sono le persone che l’hanno aiutata a far venire fuori la sua vocazione?

«I ragazzi che ho conosciuto a Ferrara nel 1951: frequentavano “La città del ragazzo” e abitavano tutti nei centri del Polesine che furono investiti dall’alluvione del Po: molti di loro persero i genitori e tutto quello che avevano. Mi ci identificai. Allora ebbi più chiaro il mio bisogno di esercitare la paternità. Come esempio da seguire nella mia vita, invece, ho avuto soprattutto don Primo Mazzolari e padre Davide Maria Turoldo. Ma una persona decisiva per me è stato il cardinale Carlo Maria Martini il quale da arcivescovo di Milano ha seguito personalmente il nostro lavoro di Exodus e ci è stato sempre vicino. L’ho amato molto».

Oggi dilagano scetticismo e indifferenza. Cosa risponde a chi, ghermito dalla disperazione, dice che il mondo non si può cambiare?

«Le strutture di ingiustizia sono create dall’uomo e l’uomo è chiamato a modificarle. Può farlo anche nel suo piccolo, cambiando se stesso. Dio può tutto. Come si può interpretare altrimenti il fatto che ci abbia mandato proprio in questo momento storico un Papa come Francesco? Dio entra nei modi più impensati nella vita degli uomini. Cristo, nel Vangelo, vince quando muore! Ci dice niente questo? Non c’è niente di logico nella Parola. A partire dalla nascita della Madonna...».

Tra le tante storie che ha vissuto come “padre-prete”, ce n’è una che le è rimasta di più nel cuore?

«Una mamma venne da me per chiedermi di andare a confessare il figlio, malato terminale di Aids. Era un giovanotto, un giocatore di basket, abitava in un quartiere alla periferia di Milano. Mi trovai di fronte a uno scheletro. Sudavo, non sapevo cosa fare, erano i tempi in cui dell’Aids si conosceva poco o niente e i primi a occuparsi di questi malati fummo proprio noi di Exodus. Mi affidai alla misericordia del Signore. Abbracciai quel ragazzo, lo baciai, lo assolsi dei suoi peccati. Due giorni dopo morì. In lui ho visto Cristo. E ce l’ho ancora dentro».

Che cosa le ha insegnato quella esperienza?

«Che senza misericordia non sono nessuno. È la cosa più importante nella vita, mi fa sentire sereno. Anche di fronte a chi vuole farmi fuori».

Perché, come dice nel libro, vorrebbe fare il prete- monaco? Non va bene così com’è?

«L’ho chiesto ai miei superiori della congregazione dei Poveri Servi della Divina Provvidenza: “posso fare il semplice monaco?”. Perché il prete regala autorità, credibilità e in cambio ti viene regalata stima. Ma io vorrei essere un “nessuno” per essere qualcuno... Senza nessuno che ti corre dietro e ti chiede di fare un selfie. Ma capisco che anche questa è una tentazione e cerco di scacciarla quando dico Messa».

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