martedì 12 maggio 2009
«Abbagliata dalle scoperte sul funzionamento del cervello, certa ricerca si riduce a considerare la realtà soltanto nel suo volto fenomenico» «Occorre invece riflettere, insieme alle scienze umane, su quali tratti specifici hanno condotto al 'salto' decisivo dall’animale all’uomo»
COMMENTA E CONDIVIDI
Perché rinunziare all’anima?, si intitolava un fortunato pamphlet di qualche anno fa. Ma quell’appello non ha trovato larga accoglienza nell’ambiente culturale, che preferisce parlare di mente, se non di cervello. Per fortuna, i teologi non smettono di discutere di anima e, qualche volta, compiono lo sforzo di rendere le loro riflessioni accessibili a un pubblico più vasto. Così ha fatto monsignor Giacomo Canobbio, docente di Teologia sistematica alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale e allo Studio Teologico di Brescia, già presidente dell’Associazione teologica italiana. Il suo recentissimo Il destino dell’anima. Elementi per una teologia (Morcelliana) è una ricca e agile introduzione all’aperto dibattito contemporaneo e una difesa dell’anima come «causa di funzionamento del cervello» e «condizione di possibilità dell’interlocuzione con Dio e con gli altri». Monsignor Canobbio, di anima si parla meno che in passato tanto che, forse, anche qualche cattolico praticante sarebbe in difficoltà a darne una definizione. Ce la può dare lei? «Dare una 'definizione' dell’anima non è facile. Si potrebbe dire che è il principio spirituale costitutivo della persona umana, ma poi si dovrebbe ancora precisare di che genere sia tale principio. A me pare si potrebbe descrivere l’anima come l’elemento distintivo degli esseri umani, ciò che fonda e permette la relazione (ciò implica coscienza, capacità di decisione, di meraviglia, di amore, di unificazione...) sia con gli altri esseri umani sia con Dio sia con il mondo. Dire elemento distintivo significa richiamare la differenza che gli umani hanno rispetto agli altri animali». Il concetto di anima sta perdendo spazio a favore di quello di mente. Perché? «La ragione mi pare sia duplice: anzitutto l’entusiasmo che accompagna le scoperte sul funzionamento del cervello (senza il quale gli atti dell’anima umana nell’attuale condizione non potrebbero darsi); poi, l’equiparazione di tale funzionamento con quello di una macchina (il computer). Sullo sfondo si manifesta una tendenza a considerare la realtà in generale nella sua fenomenicità, senza cercare il fondamento ultimo del fenomeno». Sotto la pressione del naturalismo scientifico, anche nella teologia contemporanea si è animato un dibattito sull’anima e il suo destino, un dibattito che va oltre la tradizione consolidata. «È inevitabile che ciò avvenga. La teologia si lascia stimolare dalle varie forme di sapere, che quando si tratta della persona umana toccano le questioni radicali, quelle alle quali la teologia intende rispondere rileggendo il libro della rivelazione di Dio. Da questo libro la teologia non può prescindere, poiché in esso trova la visione che Dio ha della realtà, in particolare degli esseri umani. Il richiamo alla tradizione non può essere poi dimenticato: se la teologia si lasciasse condurre solo dalle scoperte scientifiche, sarebbe in balia di queste ultime, che per definizione sono sempre rivedibili». Si possono riassumere sommariamente i termini del dibattito attuale? «I problemi che la teologia si trova oggi ad affrontare sono fondamentalmente due: quello dell’origine dell’anima e quello del suo destino nella morte. Il primo in connessione con la teoria evoluzionista, che induce a ripensare l’apparire degli esseri umani e, quindi, il salto tra il mondo animale e il mondo dell’uomo. Il secondo a partire dalla constatazione che un cadavere non pensa, non ama, non decide... e. dunque, non può essere identificato con l’essere umano. Sulla scorta di una concezione unitaria, si deve concludere che tutta la persona umana muore, o muore soltanto il corpo? Se il primo problema è relativamente facile da risolvere, il secondo è un po’ più complesso, e su questo la teologia ha fatto tentativi non del tutto condivisi. Ma la teologia è una forma di sapere in progress... ». Non pochi sostengono che si dovrebbe tornare al concetto biblico di “nefesh”, dando più enfasi all’idea di risurrezione dell’uomo integrale che non a quella di immortalità dell’anima. Perché? È una posizione corretta? «Il concetto biblico di nefesh è più complicato di quanto non si pensi: indica, mediante una serie di verbi che sono associati a questo termine, la persona umana nella sua protensione verso la vita. Il rimando alla protensione, al desiderio, permette di vedervi ciò che nella tradizione teologica si è voluto dire con il termine 'anima', cioè la destinazione degli esseri umani a una vita in pienezza. San Tommaso direbbe che il desiderio nativo non può essere frustrato, quindi la morte non può essere la parola fine sull’esistenza. In tale senso, l’anima può essere intesa come l’elemento che, posto da Dio nell’uomo, garantisce, dal versante della struttura umana, la continuità tra vita attuale e la vita futura, quella in pienezza». Le acquisizione delle neuroscienze, che paiono ridurre l’uomo al cervello, stanno minando persino il concetto di mente. Di fronte a esse come può attrezzarsi l’antropologia cristiana? E la teologia? «L’antropologia cristiana dialoga con tutte le forme di sapere, ma nello stesso tempo ne dichiara il limite, quando queste pretendono di essere esaustive. Ridurre l’uomo al cervello non aiuta a capire perché a volte il cervello reagisca in un modo e a volte in un altro. La teologia ha la 'pretesa' di difendere l’originalità dell’essere umano richiamandone appunto l’origine singolare e la destinazione, che fondano la capacità di una relazione con il Principio e il Compimento dell’esistenza umana, mediante il concetto di anima».
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: