domenica 22 maggio 2016
In "This is London" Ben Judah descrive la fine della Londra "bianca". Nei palazzi dell’aristocrazia oggi abitano ricchi arabi mentre le villette a schiera sono occupate da immigrati illegali.
Viaggio negli abissi di Londra
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Era il 1900 quando Jack London decise di travestirsi da mendicante e mescolarsi ai più poveri dell’East End di Londra per scriverne la storia. Il popolo degli abissi, il capolavoro letterario che ne risultò, ispirò George Orwell a un’impresa simile e aprì una tradizione letteraria alla quale appartiene anche This is London (“Questa è Londra”, Picador) di Ben Judah, già corrispondente dalla Russia per la Reuters e autore di un volume su Putin.

Lei descrive la fine della Londra bianca, una megalopoli dove, nei palazzi che appartenevano all’aristocrazia, oggi abitano ricchi arabi, che sfruttano serve filippine, e le villette a schiera, con i perfetti prati all’inglese, sono diventate dormitori abusivi occupati da immigrati illegali. È una città sconosciuta ai turisti che adorano il cambio della guardia, Buckingham Palace e il rito del tè. Che rapporto c’è tra la capitale elegante e la povertà nascosta del suo libro?

«L’Inghilterra si sta trasformando più profondamente e radicalmente di quanto ci si renda conto e Londra è la prima linea di questo cambiamento. Nel 1975 la popolazione della capitale era all’85% bianca britannica. Da allora gli abitanti sono aumentati di oltre tre milioni e la demografia è stata stravolta. Oggi soltanto il 45% della popolazione è white british, una percentuale che scende se consideriamo gli immigrati illegali. Si tratta di un cambiamento epocale e il fatto che i palazzi eleganti di Mayfair e i brutti negozietti di Hackney abbiano le stesse facciate del passato non significa che, dietro, non ci siano persone molto diverse. Il mio libro parla di questo».

In che senso l’immigrazione di oggi è diversa da quella del passato?

«L’immigrazione irlandese, quella più significativa nella storia di questo paese, ha raggiunto soltanto il 3% della popolazione di Inghilterra e Galles, nel momento di sua massima espansione, a metà XIX secolo. Oggi, solo a Londra, il 57% delle nascite sono da mamme immigrate e il 40% degli abitanti della capitale è nato all’estero. Non si possono fare paragoni».

Per scrivere il suo libro lei ha portato il giornalismo investigativo nel cuore della capitale inglese dormendo con mendicanti rumeni nei sottopassaggi della metropolitana di Hyde Park, intervistando spacciatori di droga a Shepherd’s Bush e prostitute su Ilford lane. Che cosa l’ha motivata per questa impresa difficile e pericolosa?

«Credo profondamente nel lavoro del cronista, che esce ogni giorno alla ricerca di storie vere, e in quello del corrispondente che va in guerra. Negli ultimi dieci anni il 40% dei giornalisti sono stati spazzati dall’arrivo dell’online e i cronisti sono in declino, sostituiti dai commenti e dalle statistiche, molto popolari perché si trovano su Google e costano poco. Ho voluto scrivere un libro da cronista su Londra perché è il libro che vorrei leggere, quello che non trovo su internet, nel quale i numeri non prendono mai il posto delle storie vere delle persone. C’era anche, in me, il desiderio di rifamiliarizzarmi con la città dove sono cresciuto e che è stata trasformata completamente, mentre vivevo all’estero come corrispondente, e anche il desiderio di far vedere agli inglesi la loro capitale come una città straniera dimostrando quanto è cambiata».

Il suo è un racconto avvincente di storie umane interessanti. Africani che lasciano i figli e una vita dignitosa in cerca di un eldorado che non esiste e si ritrovano immigrati illegali prigionieri dei trafficanti che li hanno fatti arrivare a Londra. Giovani musulmani, rampolli di ricche famiglie arabe, divisi tra le rigidità della religione dei padri e una vita di ozio e di lusso tra droga e alcol. Insegnanti nigeriane, sindaci polacchi, poliziotti africani loro stessi immigrati eppure incapaci di gestire le tensioni della nuova immigrazione. Lei non dà mai nome e cognome e spesso usa appellativi generali “l’insegnante”, “il poliziotto”, “il sindaco”. Come facciamo a sapere che si tratta di storie autentiche e che, magari in piccola parte, lei non abbia inventato?

«Non ho inventato nulla di quanto è scritto nel libro. Ci sono le foto delle persone che ho intervistato. Ho deciso io di non pubblicare nomi e cognomi, anche quando gli intervistati non me lo hanno chiesto, per proteggere la loro identità. Ho registrato tutte le interviste col mio telefonino».

This is London parla di una nuova religiosità oltre la secolarizzazione. Mentre il cristianesimo delle classi medie britanniche è in ritirata, con la chiusura di tante chiese anglicane, aumentano le chiese pentecostali e anche quelle cattoliche, alimentate dagli immigrati polacchi e crescono soprattutto le moschee. Di che cosa è fatta questa nuova spiritualità e quali sono le sue tensioni?

«I londinesi poveri, che George Orwell descriveva in Senza un soldo a Parigi e Londra, nel 1930, erano politicizzati e credevano in un futuro socialista, ma io non ho trovato nessuno, tra i miei intervistati, che avesse fiducia nei politici. La mia Londra assomiglia a quella di Dickens del XIX secolo quando la religione era molto importante perché aiutava gli ultimi della società ad affrontare le difficoltà di tutti i giorni. Così capita a Londra oggi, tra gli immigrati che non sanno che cos’è la secolarizzazione, e si attaccano alla religione delle origini. I muratori polacchi mi hanno parlato della Vergine Maria, gli infermieri musulmani di angeli islamici e i mendicanti rumeni dei loro circoli di preghiera. A Mayfair, dove abitano gli oligarchi russi, si pratica la Kabbalah. Nella Londra di oggi la fede è dappertutto. Aumentano le chiese, settecento nuove sono state costruite tra il 2005 e il 2012 per accomodare centomila nuovi fedeli. Nella Londra dove sono cresciuto io, vent’anni fa, le chiese si svuotavano perché le classi medie istruite e benestanti non credevano più in Dio. Mi ha sorpreso quanto la capitale sia oggi un posto profondamente spirituale, pieno di chiese pentecostali che traboccano di africani e di cappelle cattoliche dove i fedeli polacchi fanno fatica a trovare posto».

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