giovedì 2 dicembre 2010
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Prima che dalle camicie rosse di Garibaldi e dal genio di Cavour, l’Italia fu fatta dagli scrittori. Fin dal Trecento, quando Dante e Petrarca si rivolsero al popolo italiano, nella sua lingua, come a un tutto unitario che avrebbe dovuto imparare a superare le discordie intestine e a darsi un progetto comune di nazione. Non era ancora il Risorgimento, naturalmente: ma fu la base ideale, profonda e radicata, sulla quale secoli dopo l’identità culturale si sarebbe potuta evolvere in identità politica. Sul tema del patrimonio culturale italiano terrà oggi la sua relazione al X forum del Progetto culturale Claudio Scarpati, per oltre trent’anni docente di Letteratura italiana all’Università Cattolica di Milano.Professor Scarpati, in che modo l’attività degli intellettuali, e degli scrittori in particolare, ha collaborato con il processo risorgimentale finalizzato al conseguimento dell’Unità?«L’identità del nostro Paese fu delineata sul piano culturale ben prima della formazione di un progetto politico unitario. Dante e Petrarca per primi si rivolsero, scrivendo in volgare, a un nuovo e più vasto pubblico di "uomini desiderosi di sapere che non conoscono il latino". L’Italia è continuamente presente nel poema di Dante, che ha parole durissime contro le discordie cittadine. Petrarca si rivolge a Dio perché faccia cessare le contese in quello che chiama il "tuo diletto almo paese", l’Italia dove ha sede il successore di Pietro. La Roma antica e la Roma cristiana sono per lui all’origine dell’identità italiana. Inoltre Dante e Petrarca ci hanno lasciato in eredità una lingua sorprendentemente stabile: nessun altro idioma europeo ha avuto tanta continuità, al punto che oltre il settanta per cento delle parole usate da Dante sono ancora d’impiego comune, e che possiamo leggere il Canzoniere petrarchesco senza quasi aver bisogno di commenti letterali».E il ruolo di Manzoni?«Le generazioni risorgimentali si riconobbero nel Marzo 1821, pubblicata durante le Cinque giornate di Milano del 1848 e che sognava l’Italia "una d’arme, di lingua, d’altare / di memorie, di sangue e di cor". Ma è ogni opera manzoniana ad avere sullo sfondo l’ideale patriottico: nel Conte di Carmagnola, le contese fratricide tra gli Stati della Penisola condannano l’Italia a dipendere dalle milizie mercenarie, già esecrate da Petrarca e da Machiavelli; nell’Adelchi, i barbari invasori possono dominare facilmente sul "vulgo disperso" degli italiani; ne I promessi sposi, la Lombardia in mano straniera diventa la terra del sopruso e dell’arbitrio, al quale trovano il coraggio di opporsi soltanto pochi uomini di Chiesa come Fra Cristoforo e il Cardinale Borromeo».Più volte si è contrapposta la fioritura letteraria degli anni della Restaurazione e del primo Risorgimento, da Foscolo a Manzoni, alla relativa povertà degli anni a ridosso delle guerre d’Indipendenza: perché tale scarto?«La preparazione porta con sé un entusiasmo che si può attenuare quando il grande progetto è realizzato. La letteratura garibaldina prolunga tuttavia un’evocazione quasi leggendaria della spedizione dei Mille. Le Noterelle di uno dei Mille di Giuseppe Cesare Abba hanno un valore particolare perché mostrano l’incontro cordiale tra uomini del Settentrione e del Mezzogiorno d’Italia».Dopo l’Unità, accanto a correnti più nettamente celebrative e rievocative del processo Risorgimentale, la letteratura italiana ha anche inaugurato filoni più critici. In che modo l’attività letteraria nazionale si è allora posta nei riguardi dello spartiacque del 1861?«Dopo l’Unità la letteratura guarda l’Italia con occhi nuovi. Carducci è deluso dalla vita pubblica della nuova Italia e ritorna negli ultimi anni a meditare sui liberi comuni medievali. Pascoli volge la sua attenzione all’Italia dei semplici e al dramma dell’emigrazione. Poi sorge il nazionalismo. La Prima guerra mondiale è di nuovo occasione di riflessione per gli scrittori: penso all’Allegria di Ungaretti e al Diario di guerra e di prigionia di Carlo Emilio Gadda».Ci sono state produzioni artistiche, letterarie e non, che meriterebbero maggiore considerazione da parte della critica contemporanea, magari verso l’individuazione di un patrimonio culturale permanente al quale fare riferimento anche in occasione delle celebrazioni del prossimo anno?«La definizione di un "modello italiano" avvenne nel Rinascimento. Fu l’Europa che riconobbe all’Italia un primato indiscusso nelle arti e nelle lettere. La Roma del primo ventennio del Cinquecento vide la presenza di Raffaello, di Leonardo, di Michelangelo; nell’Umanesimo, grande moto di cultura nel quale l’Italia precedette gli altri Paesi europei, il lascito degli antichi venne accolto in un orizzonte cristiano: si percorreva una strada nuova, senza tuttavia rigettare il passato. Nel "modello italiano" l’uomo di corte eccelle per cultura, non più per abilità guerresca: e il Cortegiano di Baldassar Castiglione fu il libro più letto, nell’originale o in traduzione, nell’Europa del Cinquecento, dando il la alle corti di Francia e Inghilterra dove la nostra lingua era considerata la terza lingua classica. Ma anche Castiglione ha ben chiara la drammaticità della situazione del nostro Paese – "Il nome italiano è ridotto in obbrobrio" –, così come il suo contemporaneo Machiavelli esorta a liberare l’Italia dai "barbari". Come disse Gioberti, l’Italia donò il Rinascimento all’Europa. Questa parte della nostra storia deve essere ben presente nella nostra scuola: inglesi e americani la conoscono più di noi».
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