domenica 7 novembre 2010
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La grande macchina del censimento già avviata in India e che si propone l’ambizioso progetto di classificare circa un miliardo e duecento milioni di cittadini entro l’estate 2011, ha un ulteriore elemento d’interesse oltre i suoi numeri spettacolari, a cominciare da due milioni e mezzo di funzionari addetti all’operazione. Sarà il primo, infatti, dal 1931 (allora l’India era sotto una dominazione coloniale, quella di sua maestà britannica) a chiedere ai cittadini dell’India l’indicazione della casta d’appartenenza. Le risposta sarà facoltativa, tuttavia per una buona parte della società civile, si tratta di un’ammissione di sconfitta dell’eguaglianza sancita dalla Costituzione, come pure di una resa davanti al perdurare di un sistema discriminatorio che ha radici antiche alimentate continuamente da interessi ben precisi dietro alle pretese di carattere religioso-culturale. L’articolo 15 della Costituzione indiana proibisce ogni discriminazione basata su religione, razza, casta, sesso, luogo d’origine e il suo art. 16 stabilisce pari opportunità tra tutti i cittadini rispetto agli impieghi pubblici. Tra questi due estremi si gioca la carta dell’ambiguità e dell’opportunismo. Le caste sono un problema, per uno Stato che vuole essere moderno ed unitario. Lo sono maggiormente quando questo Stato si arrende davanti alla realtà di una società frammentata ma, ancor più parcellizzata secondo linee di disuguaglianza profonda. Una sconfitta anche per il laicista Partito del Congresso, al governo del Paese sotto la guida di Sonia Gandhi.Tesi ufficiale per l’inserimento delle caste nel censimento, è che la definizione della casta di appartenenza è utile per disporre di dati aggiornati su cui procedere alla distribuzione più equa possibile di benefici e possibilità tra i gruppi meno privilegiati. D’altro canto, però, questo implica riconoscere che il sistema è ancora ben vivo e presente in profondità nella società indiana, a partire dall’ambito matrimoniale. Come dire che il sistema castale è bandito, ma che la discriminazione che ne deriva viene riconosciuta e fino a un certe punto gestita dallo Stato. Per gli indiani che seguono acriticamente la loro "tradizione" pluri-millenaria oppure per i gruppi indù radicali con le loro affiliazioni politiche, quello castale è un sistema "integrato" che presenta a ciascuno nello scorrere del tempo possibilità e sanzioni in ugual misura, che derivano dal comportamento individuale e soprattutto dall’osservanza delle regole castali. Per i suoi critici si tratta invece di un sistema discriminatorio che, prospettando il raggiungimento della "liberazione" al termine di un ciclo interminabile di morti e di rinascite, garantisce "qui e ora" agli indiani di alta casta privilegi e possibilità e a tutti gli altri un’esistenza di subordinazione e sovente di miseria. La divisione del lavoro al centro del sistema tradizionale permane, per la continua trasmissione all’interno del sistema, perpetuata dagli usi comuni e particolari di famiglie, clan, tribù, tuttavia si nota oggi una una maggiore mobilità "orizzontale". Ad esempio, è abituale che appartenenti alle caste superiori come a quelle inferiori operino a stretto contatto nelle forze armate, si associno in attività commerciali o condividano spazi e interessi nei luoghi di aggregazione giovanile. Tuttavia nessun bramino sotterrerà mai un cadavere, come nessun dalit (termine che nell’accezione più ampia include caste inferiori, fuoricasta e tribali) sarà mai autorizzato a officiare i rituali religiosi. Forse, allora, non sorprende del tutto sapere che le caste, proprio perché al centro di una civiltà antica che nel tempo ha saputo inglobare infiniti apporti culturali e anche religiosi, hanno "infiltrato" anche fedi egalitarie come cristianesimo e islam. Recente è il riconoscimento dei dalit cristiani alla pari con quelli indù. L’impegno per raggiungere questo obiettivo ha dovuto superare, oltre alla resistenza dei gruppi indù radicali e un lungo iter legislativo, anche l’opposizione delle gerarchie ecclesiastiche che ritenevano il riconoscimento un’accettazione della discriminazione. Di fatto, dice Shailendra Awale, coordinatore dell’organismo che in India presiede ai servizi sociali delle Chiese protestanti, «i cristiani considerano se stessi come uguali agli indù di alta casta, ma superiori a quelli di casta bassa: le caste superiori, da parte loro, li considerano ad esse inferiori».Ancora una volta, quindi, la legge e i benefici che essa pretende di garantire si fermano – nel progetto di integrazione che è il loro fine ultimo – di fronte a barriere storiche e immensi interessi. Steccati che sono cresciuti negli ultimi anni. Davanti alle istanze di giustizia dei gruppi meno favoriti, alimentate da una migliore educazione e dall’attività di presa di coscienza della Chiesa indiana, la reazione è stata a dir poco ostile. Le conversioni spontanee di tribali e dalit, viste come un mezzo per rompere con i vincoli tradizionali, sono diventate spunto per ritorsioni e violenze, ignorando ancora una volta che le loro rivendicazioni sono legittimate dalle leggi e appoggiate da un gran numero di indiani di ogni fede. «Le ragioni per le conversioni al cristianesimo nelle sue varie forme, massicce in alcune aree del Paese, sono economiche e sociali – dice ancora il dottor Awale –. I missionari stranieri hanno portato a tribali e fuoricasta un sostegno materiale necessario e hanno anche reso possibile l’accesso a una migliore istruzione. La prima generazione di convertiti abbandonò l’induismo anche per necessità materiali, ma quelle successive hanno avuto ragioni più complesse e tra queste che con la nuova identità cristiana poterono sperimentare dignità e libertà assai maggiori».
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