venerdì 24 settembre 2021
In un libro Guy Chiappaventi ripercorre le vicende ultrasecolari del club romano, che l’autore considera unico per le sue «molte tragedie, molti scandali e molta identità»
Tifosi della Lazio in festa dopo la vittoria del secondo scudetto biancazzurro

Tifosi della Lazio in festa dopo la vittoria del secondo scudetto biancazzurro

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Non bisogna essere laziali per capire che questa è una delle società con il maggior concentrato di storie di cuoio, molte delle quali maledette. «Molte tragedie, molti scandali e molte identità. Nessuna squadra è come la Lazio», scrive Guy Chiappaventi, il più passionale, fra gli intellettuali di fede laziale (e sono tanti, da Alessandro Piperno a Marco Lodoli, da Carlo D’Amicis fino al “Premio Strega” Emanuele Trevi) nel suo ultimo libro Laziali bastardi. Con il piglio avventuroso dell’inviato di guerra di lungo corso (per La7) Chiappaventi ci aveva già detto tutto sulla Lazio del ’74, quella del primo scudetto biancoazzurro, in Pistole e palloni.

Uno spaccato che si ritrova tutto negli esaustivi 50 ritratti, impreziositi dalle scabre e potenti illustrazioni di Emanuele Palucci. Si va dalle eterne e belle bandiere, ai tanti campioni affermati e passati dalla Lazio, dalle molte promesse mancate fino ai tanti, troppi dimenticati. Quei “bastardi senza gloria” che hanno fatto comunque la storia. E su alcuni di questi piccoli eroi caduti, ingiustamente, nell’oblio è rimbalzata l’attenzione del lettore dal cuore laziale «e non fascista », come fui costretto a precisare all’indomani della figurina di Anna Frank con la maglia della Roma esposta all’Olimpico dalla solita sporca dozzina.

Nella settimana che porta alla sfida Lazio-Roma (oggi alle ore 18), il derby del Cupolone vorrei giocarmelo con “quattro assi” scelti nel mazzo sparigliato ad arte da Chiappaventi. Comincio dal “caso Montesi”. No, non ci riferiamo al delitto della ventenne Wilma Montesi (avvenuto nel 1953) e dello scandalo che coinvolse la Dc. Ma pur sempre di scandalo si tratta, uno dei tanti, intorno all’ultrasecolare storia della Lazio che, giova ricordarlo, venne fondata nel 1900 da un bersagliere, Luigi Bigiarelli: «Podista, l’unico che non ha giocato a pallone in questo libro», precisa in introduzione l’autore.

Qui si parla di Maurizio Montesi, il dissidente di sinistra nella Lazio post-scudetto, che il suo collega e compagno di lotte, il centravanti del Perugia Paolo Sollier aveva marchiato come «la squadra di Mussolini». I fascisti della Curva Nord non gradirono e lo accolsero all’Olimpico con lo striscione «Sollier boia», così come non gradivano le esternazioni da militante di Lotta Continua di Montesi che nelle interviste rimarcava il suo essere «figlio di una Roma proletaria e abusiva». E quanto al privilegio di svolgere la professione di calciatore il centrocampista laziale si tirava fuori dal branco: «Non sono una vacca da mercato».

La Lazio uno così non poteva mica gestirlo e infatti lo mandò in “prestito-esilio” all’Avellino, dove alla prima occasione si scagliò contro il tifoso vip, il ministro democristiano Ciriaco De Mita. Montesi da aquila si fece lupo sbranando con pugno chiuso il degrado della città irpina: «Centinaia di milioni per costruire uno stadio in cento giorni mentre l’ospedale continua a far schifo, scarafaggi e macchinari inutilizzati». La Curva del Partenio lesse i suoi messaggi incendiari come dei comunicati delle Brigate Rosse e lo rispedì alla casa madre Lazio.

Qui capitan Wilson e tutta la fazione nera del ’74 fece di tutto per non riabbracciare il figliol prodigo. Anzi la gola profonda. Fu Montesi infatti il primo a denunciare lo scandalo del calcioscommesse ordito dalla strana coppia di mercanti da Villa Borghese, Trinca e Cruciani. «La partita di San Siro con il Milan è stata truccata, è stato Wilson che mi ha offerto i soldi », dichiarò Montesi ai giudici. Testimonianza che condannò la Lazio alla retrocessione in serie B, e di fatto, a causa anche dei reiterati infortuni, alla fine della carriera di Montesi. Storie di cocaina, un incidente d’auto in cui uccise una persona e un traffico di stupefacenti – del valore di 40 miliardi di vecchie lire – fecero della primula rossa della Lazio un autentico “caso” di cronaca nera, fino a sparire del tutto vivendo in quella condizione sorianesca di un’Ombra ben presto sarai.

«Si dice che sia andato in India, chi in Sud America, chi in Francia. Soltanto supposizioni – si legge in Laziali bastardi. Una damnatio memoriae – scrive Chappaventi – . Era solo un compagno finito nel gioco sbagliato». Stessa sorte è toccata ad Arcadio Spinozzi che per Alessandro Piperno «era la Lazio. La rappresentava molto più dei campioni del calibro di Giordano e Manfredonia, che l’avevano svenduta senza ritegno». Anche Spinozzi è stato uomo di lotte, difensore in campo e fuori, dove si batteva per i diritti sindacali dei suoi compagni di squadra che sotto la gestione Calleri a fine mese dovevano rivendicare il salario al presidente e al suo famelico ds, Luciano Moggi. Un terzinaccio fisico, tutta corsa e grinta, Spinozzi, che non faceva quasi mai notizia, fino a quando alla vigilia del derby del 18 ottobre 1983 non venne sbattuto in prima pagina come il mostruoso «sequestratore» di Emanuela Orlandi.

All’Ansa di Milano il fantomatico “Dragan” del gruppo Turkesh ( Turchia libera) rivendicava: «Emanuela Orlandi è stata uccisa da Aliz e il corpo non sarà mai più ritrovato. Il giocatore Arcadio Spinozzi sa molte cose e conosce Aliz che vuole uccidere me e Mirella Gregori (la ragazza rapita quaranta giorni prima della Orlandi)». Uno scherzo da derby dei romanisti? Mistero. Non è un mistero invece che intrapresa la carriera di allenatore Spinozzi è stato la vittima sacrificale del “sistema Moggiopoli”, contro il quale si è costituito parte civile intraprendendo una battaglia persa già in partenza. Un po’ la nemesi di quella Lazio di Spinozzi, povera e disarmata, costretta a giocare sempre in salita per arrivare a una salvezza sudatissima, quanto la sua maglia di gregario generoso: «Quella maglia d’un blu assai più elettrico di quanto apparisse in tv era tutta per Arcadio. La mia Arcadia», l’omaggia ancora Piperno.

E un omaggio dovuto in Laziali bastardi, come il più grande salvatore della patria (al pari di Chinaglia e mister Maestrelli) è a Giuliano Fiorini. La sua corsa sotto la Nord dopo il gol al Vicenza è un fermo immagine che nella memoria di cuoio dei laziali è secondo solo al dito puntato alla Sud di Chinaglia dopo un un golvittoria nel derby. Quel giugno dell’87, davanti a 70mila cuori tremanti (compreso quello dell’allora giovane scrivente), la Lazio si giocava la permanenza in B contro il Vicenza. La squadra, partita con l’handicap dei -9 punti (altro scandalo scommesse, “caso Vinazzani”) continuava a sbattere contro il muro vicentino e inesorabilmente stava scivolando in C. Poi quel lampo, il guizzo provvidenziale di Fiorini al minuto 82 che si ritrova tra i piedi una «palla sporca...» e con una puntata di diamante gonfiò la rete per l’apoteosi.

«Il gol più importante della storia della Lazio», esulta ancora a distanza di decenni Chiappaventi. Il capolavoro di una vita per “Whisky” Fiorini, ritrovato a Bologna con quella faccia da Flavio Bucci, stanco, un po’ triste e solitario nella sua tabaccheria dove tutti i giorni non mancava mai di andare a salutarlo il “Reuccio del gol” laziale, Beppe Signori. Fiorini è volato via nel 2005, a 47 anni, avrebbero dovuto fargli un monumento per quella rete, e invece l’estate dell’87 retrocesse solo lui, ceduto al VeneziaMestre, in C2. Ma quella rete rimane, così come resterà per sempre l’impresa miracolosa di mister Eugenio Fascetti che con quel gruppo di uomini scelti aveva spazzato via il -9 e superato gli inediti spareggi a tre – con Taranto e Campobasso – trascinandosi appresso 50mila tifosi laziali al San Paolo di Napoli.

L’anno dopo “Fascio” Fascetti, inventore del «caos organizzato» nonostante cinque 0-0 di fila (record insuperato?) riportò con l’anima e con i denti la Lazio in Serie A. Ma anche a lui Calleri diede il benservito. Fascetti si congedò da “hombre vertical” continuando ad allenare fino alla morte di Marlon Brando, «perché anch’io ero un po’ Marlon Brando». Oggi, a 82 anni, è ancora convinto che il libero staccato dalla difesa, alla Scirea o alla Baresi, rappresenti «l’uomo in più», per un motivo anche esistenziale: «A me piace credere di essere stato libero nella mia vita e di aver pensato da uomo libero, anche se talvolta troppo libera è stata la forma». Un pensiero profondo che sarebbe piaciuto anche a “papà” Bigiarelli che nell’atto di fondazione della Lazio inserì il motto sallustiano: Concordia parvae res crescunt, «Nell’armonia crescono anche le piccole cose».

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