mercoledì 19 giugno 2019
Si intitola “Atti divini” la mostra che l’artista americano ha allestito alla Reggia di Venaria Reale. Molte opere hanno per oggetto l’immaginario cristiano. Ma basta a farne arte religiosa?
«The Last Supper» (2003) di David LaChapelle

«The Last Supper» (2003) di David LaChapelle

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Si intitola Atti Divini la mostra di David LaChapelle aperta a Venaria Reale, settanta opere tra lavori storici e inediti del fotografo americano. LaChapelle ha costruito la sua fama, anche per via di scandalo, con immagini patinatissime in cui tutto è iperbolico, dal colore alle pose all’ambientazione (di fatto è un figlioccio di Jeff Koons), eroticamente caratterizzate e spesso basate su soggetti di tradizione cristiana, ragione per cui viene definito blasfemo. Scriveva pochi giorni fa Stefano Bucci sul “Corriere della Sera”: «LaChapelle prova ancora una volta ad aggiornare la rappresentazione del sacro, confrontandosi (ad esempio) con episodi della vita di Cristo… ambientati da lui in spazi urbani contemporanei molto degradati».

l punto è proprio questo: davvero LaChapelle aggiorna la rappresentazione del sacro? E soprattutto: LaChapelle rappresenta il sacro? La risposta è no. Tutto si basa su un equivoco: che riguarda anche l’arte tranquillamente appesa in uno spazio sacro. Gli artisti da tempo usano il catalogo visivo e simbolico del cristianesimo come un repertorio semanticamente denso ma ormai storicizzato non diversamente da quanto fatto dai loro colleghi tra Quattro e Ottocento con la mitologia classica.

Il crocifisso è diventato metafora della sofferenza umana e della morte del giusto schiacciato dal potere: e così è utilizzato da gran parte degli artisti del Novecento. Come fu per Ercole e Apollo, anche il Calvario è diventato un racconto mitico, forse il più forte di tutti (e per questo il più soggetto anche alla parodia), sganciato dalla dimensione religiosa. Si registra così una scomoda sovrapposizione, che agisce anche sul repertorio storico: da una parte si attribuisce automaticamente all’iconografia il fatto religioso, nello specifico cristiano; dall’altra l’immagine rimane simbolicamente spirituale ma non confessionale nonostante la precisione del rimando visivo. In ogni caso, la natura sacra dell’opera viene ridotta a cosa è rappresentato, ignorando l’indagine più profonda del come è rappresentato.

È il terreno su cui si è giocata la rottura tra Chiesa e artisti nel corso dell’Ottocento. La prima, anche per ragioni storiche e dottrinali, ha privilegiato il contenuto rispetto all’immagine, confidando che bastasse quello – con il suo valore pedagogico e normalizzante – a reggere il peso del sacro. Su questa linea ha continuato a lungo a commissionare opere, a costruire chiese, a diffondere nel mondo un immaginario standardizzato. Alcuni artisti invece, a posteriori i vincenti della storia, si sono concentrati sul problema del linguaggio e della forma portandolo su territori nuovi ma soprattutto “privati” dove la Chiesa, per la quale l’arte manteneva una dimensione comunitaria, non solo non poteva ma soprattutto non aveva interesse a seguirli.

Il repertorio dell’iconografia cristiana è oggi parte di un oceanico immaginario condiviso e per questo diluito e svincolato dal senso originario. Nel migliore dei casi diventa metafora, nei peggiori una soluzione a basso costo e di sicuro impatto. Il mondo di LaChapelle rientra in queste dinamiche. È un gioco citazionista sulla storia dell’arte occidentale, che in gran percentuale è fatta di immagini “sacre”. A LaChapelle queste interessano non per il loro contenuto (o almeno fino a un certo punto) ma come dispositivo, bocconi golosi che tutti sono in grado di riconoscere, rimescolati in un mondo urbano che si vorrebbe degradato e invece è molto fashion.

LaChapelle è artista abile nel rimescolare i codici. Michelangelo o Botticelli e i languori pubblicitari s’incontrano in una dimensione favolosa e kitsch che ha come ambiente di coltura un linguaggio fumettistico e straoleografico tipico dell’immagine sacra in chiese – non solo cattoliche – nordamericane, parente dell’arte devozionale dell’Ottocento europeo. I Cristi vuoti e imbambolati di LaChapelle sono gli stessi di tanti Sacri Cuori esposti alla preghiera. Il cristianesimo non è innocente in questo processo.

Pensiamo all’Ultima cena di Leonardo, ovviamente ripresa anche da LaChapelle, tanto citata in ambito laico (non solo arte ma cinema, pubblicità fino al merchandising) quanto in opere di “arte sacra”. L’innovativa iconografia elaborata da Leonardo, così attenta a scrutare la verità umanamente sconvolgente del fatto sacro, è stata depauperata, ridotta ad ammiccamento. Un effetto cominciato, l’aveva capito Andy Warhol, con l’incalcolabile moltiplicazione delle stampe popolari.

La replicazione attuale del modello del Cenacolo anche nella pittura destinata ai luoghi di culto o di ambizione sacra si basa sullo sfruttamento della notorietà dell’immagine senza ripensarne le motivazioni profonde; rivela l’assenza di una riflessione sull’impiego di una fonte sì autorevole ma ampiamente sfruttata dalla cultura visiva secolarizzata; dimostra infine la carenza di fantasia e capacità di elaborare un discorso iconografico contemporaneo, nell’illusione che sia sufficiente riverniciare o dare una patina di cronaca all’immaginario prodotto nel passato. A ben vedere, quello che fa LaChapelle.

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