domenica 23 ottobre 2022
Le gerarchie consolidate mettono un confine e molti gradini tra musica e rumore. Eppure nel rumore c'è la forza primordiale della genesi. I confini sono solo i pregiudizi del nostro ascolto
Vuoi fare musica? Ascolta il rumore

Michael Dziedzic/Unsplash

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È praticamente un dogma attribuire alla musica il primato assoluto tra le modalità di manipolazione delle onde sonore disponibili. Per contro il povero rumore viene declassato invariabilmente a prodotto più o meno sgradito di eventi fisici, i più vari, che silenzieremmo volentieri potendo scegliere per sottrarci a quel tormento per i nostri timpani avvezzi (si suppone) all’armonia. Il rumore, congerie grossolana cui la elevazione sublime a spartito è del tutto sconosciuta. Forse non è proprio così. Per molteplici ragioni il rumore può diventare musica e la musica rumore. Non si tratta di un ascensore sociale a misura di biscrome. Il gusto, l’affezione, l’inquinamento alcolico o psicotropo, l’educazione non possono definire le gerarchie linguistiche. Al più tracciano un perimetro instabile dentro cui qualcosa ha valore più di qualche altra, in modo del tutto relativo al contesto.

Partendo da alcune provocazioni di Iannis Xenakis in una conversazione a 4 voci, tra lui Messiaen, Revault d’Allones e Michel Serres ogni presunta tesi evolutiva tra rumore e musica deve essere messa in discussione. La musica è anche diventata a un certo punto della storia simbolo di disparità sociale, ghirigoro del potente, alibi per il cortigiano, colonna sonora del superfluo, da non confondere con l’inutile che è invece necessario. Il rumore non ha mai corso questo rischio. Tra rumore e musica, al netto della sociologia, non vi è confine, posto che si tratti di due entità differenti, una forma di aggregazione di suoni immaginata come primitiva e l’altra pensata come sua evoluzione.

Non significa ovviamente che il Requiem di Mozart equivalga al frastuono del traffico londinese, allo scroscio di uno sciacquone o al sibilo di un trapano da dentista. Significa che molte distinzioni dipendono dall’appagamento che ne ricaviamo più che dalla comprensione che ne abbiamo, siano le loro strutture simili o eterodosse. La musica è sempre imitazione. Anche se consideriamo il processo esclusivamente nelle sue accezioni "auliche", come lo strumento che imita l’usignolo piuttosto che l’upupa, l’imitazione attinge a una gamma così ampia di fenomeni che prendendone coscienza rimarremmo sorpresi. Di fatto il musicista, se si volessero escludere anche tutte le inevitabili influenze che ha accumulato consciamente o inconsciamente durante l’esistenza e l’esperienza, il metodo e l’apprendimento, imita ciò che ha già sentito, per dettaglio e dinamica. La musica quando passa allo strumento è già la replica di un processo antecedente.

Il rumore è molto più generativo. Scaturisce dalla sua causa fisica come da una sorgente, che sia la marmitta di uno scooter piuttosto che il fragore delle cascate del Niagara o il cigolìo di una porta. Si combina in un modo apparentemente casuale con la somma degli altri rumori sempre diversi e sempre costantemente originali che lo accompagnano nell’ambito di uno specifico habitat acustico. Il rumore sembra avere in sé una singolarità mutuata direttamente dalla fonte che alla musica sfugge attraverso mille intermediari differenti. Il rumore e le sue sonorità performative sono realmente casuali? Sono puro caos oppure seguono una partitura le cui misure sono talmente estese e mimetiche che solo grazie alla limitatezza dei nostri strumenti percettivi non riusciamo ad abbracciarne la composizione complessiva? Il rumore ha in sé molti elementi primari della genesi di una struttura musicale, humus primordiale da cui proviene l’impianto stesso di ciò che chiamiamo e definiamo univocamente come musica.

Il rumore. Xenakis, come tutta la musica contemporanea che va in quel senso, sembra occuparsi di rumore per uno che ha ascoltato solo versioni canoniche di Vivaldi, o Bach, Wagner, Chopin. È un tema interessante quanto sfugga a tanti cultori della musica, tra cui me stesso fino a queste righe, che Wagner, Bach e tutti gli altri si sono occupati di rumore, un rumore che la convenzione e il nostro gusto hanno determinato come riferimento alto.

Su che base dovremmo costruire questa gerarchia? Se la viola di Xenakis che ho ascoltato in quartetto per la prima volta a Covent Garden con una certa sorpresa e fastidio grazie all’invito di un amico matematico, imita un’ambulanza, fa veramente una cosa diversa da un crescendo wagneriano che imita il montare dell’epica interiore? Vado sempre più verso un inevitabile radicale dissolvimento di pregiudizi che mentre sembrano costituire le fondamenta del sapere ci tengono dentro un oscurantismo ammantato di lustrini che abbiamo solo immaginato. Vuoi fare musica? Ascolta il rumore.

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