giovedì 4 maggio 2017
La psicoanalista francese, di cui è appena uscita l’autobiografia, legge lo stato di sofferenza di tanti che volendo verità e giustizia finiscono per votarsi alla violenza omicida
La psicanalista e scrittrice Julia Kristeva

La psicanalista e scrittrice Julia Kristeva

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Julia Kristeva sa come sorprendere. Intellettuale- ponte tra Oriente e Occidente (nata in Bulgaria, è diventata una pensatrice che ha messo a frutto la miglior tradizione francese), mentre si parla al telefono è capace di spaziare dalla sua passione per il calcio all’amata Teresa d’Avila, passando dall’islamismo che radicalizza i giovani transalpini a un sincero elogio per Benedetto XVI (ma apprezza molto anche Bergoglio). Sabato sarà al Festival Bergamo «Fare la pace» per affrontare il tema Il male radicale: un’interpretazione (Centro Congressi Giovanni XXIII, ore 21). Nei giorni scorsi Donzelli ha pubblicato la storia della sua vita raccontata a Samuel Dock in forma di intervista, La vita altrove. Autobiografia come un viaggio (pagine 260, euro 24,00).

Curiosamente nel suo libro si scopre che da piccola voleva fare la cosmonauta. E in effetti, in quanto psicanalista, è diventata un po’ un’esploratrice, non del cosmo in senso astronomico, ma dell’universo interiore dell’uomo...

«Sì, possiamo dire così, anche se in verità non l’ho mai pensato in questi termini. È vero, al posto di esserlo del macrocosmo, sono diventata un’esploratrice del microcosmo della vita interiore dell’essere umano ».

E cosa ha scoperto?

«Molte cose, che sono poi quelle che incontro tutti i giorni nei miei pazienti in analisi. E anche da linguistica e studiosa di letteratura ho trovato nelle persone la difficoltà del vivere la tragedia dell’esistere, ma anche l’enigma della condizione umana, ovvero la capacità di attraversare molte prove e trasformare situazioni impossibili in momenti di condivisione e di positività. Questo mi porta a postulare che esiste nell’essere umano un senso ultimo che non è di smarrimento, ma un cammino di evoluzione».

«Papà è come Dio, esiste ma non si vede tanto». È un’affermazione di suo figlio David.Verrebbe da definirla una posizione teologica assai singolare: la condivide?

«Mi considero atea. Nel mio studio di Santa Teresa d’Avila ho scoperto che la trascendenza è immanente alla capacità umana di rinnovare, di sperare e di creare legami con altri esseri umani. Non credo che Dio sia venuto da noi, ma vedo la trascendenza nell’immanenza delle cose».

Nella sua autobiografia tra le tante cose – per esempio il suo rapporto con René Girard – si legge della sua grande passione per il calcio. Come mai una donna di cultura vive il tifo in maniera così forte?

«Mio padre da piccola mi portava allo stadio e questa passione mi è rimasta. E poi con Philippe (Sollers, il marito, ndr) e David condividiamo il tifo per il Paris Saint-Germain. Quando ci sono le partite, mi vogliono assolutamente vicino a loro. Poi però vedo anche che il calcio è diventato il ricettacolo di alcune delle situazioni peggiori della nostra società: l’avidità per il denaro, la violenza e gli scontri con le altre tifoserie, cose assolutamente negative. Cosa trovo nel calcio di interessante? Il fatto che è come una musica, un violino o un pianoforte: fa vibrare tutte le corde dell’anima grazie alla sua improvvisazione e al contempo alla grande organizzazione e coordinazione tra i vari giocatori».

Da dove viene all’atea Kristeva l’interesse per quello che nei suoi libri ha definito «il biso- gno di credere»?

«Mio padre era credente, cristiano ortodosso, portava in chiesa me e mia sorella; mia mamma una darwiniana. Sebbene non approvassi da giovane la fede di mio padre, questo non mi ha impedito di sentire come la sua religiosità fosse uno spazio interiore di libertà e di rivolta contro l’oppressione della società staliniana in cui vivevamo in Bulgaria. Ho iniziato ad esplorare la religiosità quando sono arrivata in Francia: Philippe mi ha fatto leggere Agostino e Meister Eckhart attraverso Freud. E con queste letture ho cercato di costruire un altro approccio al fatto religioso. Oggi lavoro molto con i giovani islamici che diventano radicali e integralisti: comprendo che il bisogno di credere è un elemento antropologico costitutivo dell’essere umano. Oggi nei giovani è fortissimo il desiderio di verità. L’umanesimo di un tempo non arriva a dare ragioni per vivere e sperare a questi ragazzi, e questa mancanza porta spesso le nuove generazioni ad abbracciare ideologie mortifere come il jihadismo».

In Francia si discute sul perché si sia arrivati al fenomeno dei terroristi di seconda generazione o come sia possibile l’avvento dei foreign fighters. Qualcuno, come Olivier Roy, parla di «islamizzazione della radicalizzazione». Altri – Gilles Kepel, per fare un nome – ritengono che si tratti di un problema interno al mondo islamico. Lei come vede la questione?

«Non sono un’intellettuale ideologica né categorizzo le persone. Io ho a che fare con le persone singole e con le loro storie per come mi vengono presentate. E cerco di capire il loro smarrimento e di occuparmene direttamente, con lo scopo di restituirli alla società. Constato che spesso si tratta di giovani con problemi famigliari e psicologici, ma che hanno anche un grande bisogno di spiritualità e idealità, aspirazioni cui la secolarizzazione non dà risposte. C’è un grande lavoro da fare, del resto, perché l’islam diventi un islam dei lumi. Dopo la mia partecipazione al Cortile dei gentili ad Assisi con papa Benedetto XVI, ho dato avvio al Collège des Bernardins a Parigi a un circolo intellettuale, chiamato circolo Montesquieu, in cui si ritrovano cattolici, ebrei, islamici e umanisti come me. Qui cerchiamo di creare ponti e luoghi di scambio tra queste persone che hanno idee e riferimenti diversi. Vi hanno preso parte anche pensatori islamici che portano avanti un’interpretazione dei loro testi sacri. Bisogna incoraggiare letture di questo tipo del Corano».

Lei ha citato Assisi e Benedetto XVI. Ricordiamo bene la consonanza fra lei e il papa emerito…

«Sì, ad Assisi mi aveva colpito moltissimo quando affermò che nessuno è proprietario della verità. Quest’affermazione di Ratzinger mi ha portato ad approfondire la possibilità di un lavoro di scambio culturale tra posizioni diverse, da cui poi è nato il circolo Montesquieu».

E di papa Francesco cosa pensa?

«Il papa attuale usa un linguaggio più popolare del suo predecessore. Vive in un mondo in cui i valori etici sono in sofferenza. E anch’egli dà l’idea di non essere un proprietario della verità. Nella desertificazione di valori e nella frammentazioni delle interpretazioni di oggi vedo in Francesco l’unico leader mondiale che gode di simpatia internazionale».

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