sabato 9 dicembre 2017
Due mostre indagano il lavoro nelle arti visive di due esponenti della letteratura ribelle americana. La parola è ricca di colori
“The third world war” di Lawrence Ferlinghetti esposto a Brescia

“The third world war” di Lawrence Ferlinghetti esposto a Brescia

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KEROUAC, LA SCRITTURA È “ON THE ROAD” E LA PITTURA IL SUO SPECCHIO
«Dipingo solo cose belle. Uso vernici da pareti e colla, uso il pennello e le punte della dita. In pochi anni potrei diventare un pittore di primo piano. Se lo voglio». Forse Jack Kerouac, che scriveva queste righe nel 1956, non lo volle davvero e preferì affidarsi soprattutto alla penna. O forse aveva capito che la sua pittura, come la sua scrittura, restava fuori dai generi prestabiliti, specie da quelli prescritti dalle vestali delle avanguardie americane. Ma per tutta la vita continuò a tradurre in segni e colori la sua visione del mondo, rovente, allucinata e ansiosa di salvezza. Se il Kerouac scrittore è celebre, non fosse altro per quell’On the road diventato ormai uno slogan privo della dirompenza eversiva che poteva avere nell’America di metà anni 50, il Kerouac pittore è possibile scoprirlo fino al 22 aprile al Maga di Gallarate, in un mostra – Kerouac. Beat Painting – a cura di Sandrina Bandera, Alessandro Castiglioni ed Emma Zanella. Forse Kerouac non è un grande pittore, ma è certamente un grande artista. Nelle ottanta opere esposte, tra dipinti e disegni, in gran parte inedite in Italia, spicca la personalità fuori dagli schemi, anarchica e tragica dell’autore di Sulla strada e Big Sur. Sandrina Bandera mette in guardia dal «leggere queste opere pittoriche con il metodo tradizionale del critico d’arte; in realtà esse sono parte essenziale di quel fenomeno potente che è stato Jack Kerouac, come fossero membra di un unico corpo, così dinamico e vorticoso da aver bisogno, per esprimersi, di una molteplicità di strumenti».

Ma è anche vero che guardando gli schizzi e i pastelli su carta e le tele, su cui lavora la figura (solo verso la fine si avvicina all’astrazione) con rapidità e libertà, Kerouac rivela una vena espressionista persino in anticipo sui tempi, una sorta di colta naiveté che fa risuonare le sue opere come preludi di quel ritorno alla pittura che segna gli anni 80, da Clemente e Cucchi al graffitismo. Ciò che colpisce maggiormente è la presenza costante in Kerouac dell’immaginario sacro, nello specifico cattolico (anche se alla metà degli anni 50 si accompagna per un tratto alla scoperta del buddhismo), alla quale è dedicato in catalogo (Skira) un saggio di Stefania Benini. Molte opere raffigurano crocifissioni, madonne, sacri cuori, angeli. Il termine Beat , coniato da Kerouac, sta per “abbattuto”, ma anche “beato”. Questa seconda accezione, gli viene chiara durante un pomeriggio «nella chiesa della mia infanzia… e a un tratto con le lacrime agli occhi, quando udii il sacro il silenzio della chiesa… ebbi la visione di che cosa avevo voluto dire veramente con la parole “ Beat ”: la visione che la parola Beat significava beato». «Parlare di sacro in Kerouac tanto per la sua produzione letteraria quanto per quella figurativa – scrive Benini – vuol dire introdurre il concetto di visione: della sua visione della realtà, della scrittura e di un approccio percettivo estremamente sensibile e capillare fino al parossismo da “fuorilegge dell’apparato sensoriale”».

L’ipersensibilità di Kerouac, resa ancora più estrema da alcol e amfetamine, dà luogo a visioni apocalittiche. Essenziale è l’elemento biografico: lui nato in una famiglia francocanadese di origini bretoni, intrisa di cattolicesimo tradizionale (una delle sue tele è un ritratto, del 1959, del cardinale Montini), e insieme segnata dall’alcolismo del padre e della madre e soprattutto dalla morte del fratello maggiore Gerard, a 9 anni. Una morte di cui Jack si sentirà in qualche modo colpevole: un senso di colpa che riversa nei libri ( Visioni di Gerard) e nell’arte. Il fratello diventa l’angelo o l’Ecce Homo , lui è Giuda. L’amico Allen Ginsberg osserva come Kerouac negli ultimi anni fosse ossessionato dal Calvario e racconta la sua autodistruzione attraverso l’alcolismo (tragica è l’intervista Rai con Nanda Pivano del 1966, in cui Kerouac appare completamente ubriaco) come una sorta di espiazione: una salita sul calvario più che una discesa agli inferi: «Quando beveva stava subendo la crocifissione nella mortificazione del suo corpo». In questo irriducibile contrasto tra «la visione estatica dell’esistenza» e «la percezione» della quotidianità «come via crucis» (così la Benini), si consumano la pittura, la scrittura ovvero la vita di Jack Kerouac, il “santo bevitore”.

FERLINGHETTI, QUEL TIMBRO EUROPEO DA TURISTA RIVOLUZIONARIO

È forse una nuova primavera per la Beat generation in Italia? Grazie soprattutto a Fernanda Pivano e la sua instancabile attività di tessitrice di rapporti in presa diretta con la cultura americana contemporanea, quella stagione a cavallo tra gli anni 50 e 60 nel nostro Paese ha avuto una ricaduta e un’onda lunga (spentasi sulla spiaggia di Castel Porziano nel 1979) in tempo reale. Ma è una curiosa coincidenza che da noi siano allestite in contemporanea due mostre dedicate alla pittura di Jack Kerouac (a Gallarate) e a Brescia, nel Museo di Santa Giulia, alla vita e all’opera, poetica e visuale, di Lawrence Ferlinghetti (fino al 14 gennaio). Se Jack Kerouac è l’elemento detonatore della Beat generation , consumatosi in una vampata di alcol e benzedrina, Lawrence Ferlinghetti sembra essere la figura che ne ha consentito la costruzione di un quadro strutturale e persino “istituzionale”, grazie alla libreria City Lights Bookstore, aperta a San Francisco nel 1953 e tuttora in attività, e in cui hanno trovato casa tutti i Beat , da Corso, Burroughs e Orlovsky fino a Bob Dylan, e grazie all’omonima casa editrice con la quale nel 1956 ha pubblicato L’urlo di Allen Ginsberg.

Morto Kerouac a 47 anni nel 1969, Lawrence Ferlinghetti è invece uno splendido e ironico 98enne, non solo sopravvissuto al tramonto della Beat generation ma protagonista, in quanto testimone e sacerdote, della celebrazione postuma, non immune dalla retorica. Eppure non mancano i punti in comune, a partire da una radice francofona: Kerouac perché canadese, Ferlinghetti perché cresciuto dalla zia a Strasburgo dopo la morte del padre e la pazzia della madre. Ed entrambi segnati da una perdita, il fratello Gerard per Kerouac, il padre, appunto, per Ferlinghetti: il quale solo al momento di arruolarsi in marina scopre che il suo cognome non è Ferling, come credeva, ma è italiano. Di lì comincia una lunga ricerca che dopo molti anni lo porterà a scoprire le origine bresciane del padre: un processo che però lo conduce a costruirsi una “identità italiana”, anche linguistica.

Ma Kerouac e Ferlinghetti, il cui A Coney Island of the Mind è il libro di poesie più venduto negli Stati Uniti, con oltre un milione di copie, sono artisti che si esprimono nella letteratura e nella pittura. Espressionista e radicale Kerouac, più moderato – potremmo dire più europeo – Ferlinghetti, i cui lavori migliori per intensità e tecnica appaiono quelli realizzati negli ultimi quindici anni. La mostra ricostruisce in ordine cronologico con documenti, dipinti, volumi, fotografie il percorso di Ferlinghetti e della Beat generation : l’agitatore culturale, il poeta protagonista di reading in chiave jazz o davanti a folle da concerto rock, il pacifista radicale dopo aver visto di persona gli effetti dell’atomica a Nagasaki ma anche l’entusiasta «turista delle rivoluzioni», come si definisce, da Cuba al Nicaragua. Una contraddizione, propria di quegli anni, che una mostra celebrativa non può sottolineare ma che balza all’occhio.

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