sabato 14 giugno 2014
L’esordio a Manaus contro l’Inghilterra: gli azzurri ripartono da una difesa incerta e cercano il gol perduto.
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Dove eravamo rimasti? Ah già a Kiev, finale di Euro 2012. Poker servito per la Spagna campione del mondo, certo, ma comunque quel secondo posto dell’Italia agli Europei rimane una piccola impresa del nuovo corso targato Cesare Prandelli. Nessuno quattro anni fa dopo il crac dei Mondiali del Sudafrica, avrebbe mai immaginato che gli azzurri si sarebbero rialzati in così poco tempo. Con sguardi quasi sbalorditi in Polonia-Ucraina abbiamo assistito alla crescita precoce di un gruppo che nella seconda era Lippi aveva perso fiducia nei propri mezzi e quasi rinnegato il dna tutto italiano che vuole le nostre selezioni vincenti solo quando possono contare su un equilibrio solido che parta dalla difesa. Nel 2006 davanti a Buffon, c’era la diga insuperabile composta da Cannavaro (Pallone d’Oro) e Materazzi, con Grosso e Zambrotta ad asfaltare le fasce. Per le qualificazioni del 2012 sempre super Gigi Buffon a fare da saracinesca e il blocco Juve, Barzagli, Chiellini e Bonucci a proteggerlo, così da chiudere il girone con la miglior difesa. Vista da dietro insomma questa squadra sarebbe una garanzia. E invece i dubbi alla vigilia del debutto azzurro, stanotte a Manaus contro l’Inghilterra, come sempre non mancano. La difesa è quella del triplete tricolore della Juve di Antonio Conte, ma è anche lo stesso reparto che quando supera le Alpi e va in Coppa prende sempre gol. Davanti invece gli attaccanti azzurri si presentano all’appuntamento mondiale con la fama di "spuntati". Nelle ultime sette partite (senza considerare la sgambata con la Fluminense) oltre a non vincere mai, l’Italia ha segnato appena 8 gol e solo 3 portano la firma degli attaccanti: Balotelli, Osvaldo e Pepito Rossi. Gli ultimi due, per ragioni diametralmente opposte, il ct li ha lasciati a casa. Il “caso Pepito” si è smorzato dopo una breve turbolenza di twitters, ma qualche scoria rimane (specie se i suoi colleghi attaccanti dovessero fallire), mentre è svanita la prospettiva affascinante di un Rossi in terra brasiliana, dove è ancora aperta la piaga lasciata della tripletta Mundial (Spagna ’82) di Pablito Rossi alla Seleçao di Zico, Socrates e Falcao. Dei tre cecchini dunque, resta in gioco solo Mario Balotelli, il quale dopo aver mostrato lampi di genio a Euro2012, è tornato al suo standard di campione solo in potenza. Dal primo minuto di Manaus, il Marione italiano è chiamato a pensare non solo con i piedi se vuole ancora salire in cima all’olimpo dei fuoriclasse (vedi alla voce Cristiano, Messi, Neymar) Potrebbe essere l’ultima chiamata per lui, e Cesarone da Orzinuovi al Mario di Concesio lo ha spiegato in tutte le lingue, bresciano compreso. Di sicuro questa è la prima e ultima chance mondiale anche per Antonio Cassano. Il genio ribelle di Bari Vecchia, con la moria di talenti indigeni che c’è nella nostra Serie A, a 32 anni è stato ripescato da Prandelli che, minutaggio a parte, punta molto su di lui per «rendere questa Nazionale bella e incosciente». Due principi estetici che fotografano bene il centrocampo, tutto ancora ai piedi di sua luminescenza Andrea Pirlo. Con Buffon, Barzagli e De Rossi, Pirlo è il quarto moschettiere iridato del 2006. Un sopravvissuto che il mondo - inglesi in primis - ancora ci invidia, ma dopo questo campionato è pronto a passare il testimone al suo erede naturale, Marco Verratti.Per ora Prandelli ha alzato il piccolo Marco con gli elogi, promuovendo il regista tascabile del Paris Saint Germain a titolare e lo stesso ha fatto con il cuore Toro, Darmian: uno dei tre granata, con Cerci e Immobile. Tutta gente al debutto, fresca, in linea con la nuova filosofia del ct, meno oratoriale nella forma e nel pensiero e sempre più “rottamatore” (in linea con l’amico premier Matteo Renzi) riguardo a schemi e preconcetti della tradizione italica. Agli Europei i primi tentativi di questa rivoluzione estetica («dobbiamo imparare a giocare per divertire», il vero “codice del vinci” prandelliano) si sono visti, e tranne il blackout della finale aveva anche convinto. L’ultimo anno è stato a tratti confuso, un po’ troppo sperimentale e il consenso popolare della Nazionale è sceso nuovamente. E non è solo per le mezze figuracce rimediate nelle recenti amichevoli pareggiate con Irlanda e Lussemburgo («lo scorso anno qui alla Confederations fu lo stesso contro Haiti e poi siamo arrivati terzi», è la difesa di Cesare), ma si percepisce qualcosa di impalpabile e un senso di involuto (forse la scarsa “cattiveria agonistica” rilevata spesso dallo stesso ct) in questi 23 azzurri. Un gruppo che non dà la certezza assoluta del passaggio del turno. Del resto nella fase eliminatoria non potevano capitare avversarie peggiori: Inghilterra e Uruguay che assieme all’Italia fanno 7 titoli mondiali vinti (più di un terzo di tutte le 19 edizioni sin qui disputate) nello stesso girone. E dopo i pareggi traumatici con Nuova Zelanda e Paraguay a Sudafrica 2010 non c’è da snobbare neppure l’annunciata cenerentola Costa Rica. Il Paese è pronto per il debutto degli azzurri e come sempre si divide, tra chi pensa che stare subito sotto pressione può essere d’aiuto a Cesare e i suoi ragazzi e chi invece teme un Sudafrica bis. In mezzo sta la voce neutra, ma sbilanciatissima di Josè Mourinho che profetizza: «Questo Mondiale lo vincerà l’Italia». Essendo l’unico a pensarlo, Prandelli ha ricambiato: «Lunga vita a Mourinho». Noi, con il beneficio del dubbio - ma con intatta speranza - auguriamo a questa Nazionale di viaggiare il più a lungo possibile per gli stadi di Brasile 2014.
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