lunedì 30 agosto 2010
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C’era una volta il Nepal, paradiso del trekking e delle scalate agli Ottomila, monarchia assoluta, divina di origine e di opportunità. C’è oggi una Paese incerto, democrazia senza pace, attraversata da tensioni e violenze. Le sue meraviglie naturali restano in maggioranza intatte, con i danni maggiori all’ambiente contenuti da una migliore coscienza ecologica, ma le sue risorse sono a rischio di uno sfruttamento intensivo "necessario" allo sviluppo di una nazione che sfiora ancora il fondo delle statistiche economiche dell’Asia. La metà dei ventotto milioni di nepalesi stimati oggi sopravvive con l’equivalente di meno di un dollaro al giorno, l’ottanta per cento con meno di due dollari. Una povertà evidente e drammatica, insieme ragione e conseguenza dell’instabilità che ha segnato, in particolare, gli anni recenti. I drammatici eventi del 2006 che hanno portato due anni dopo alla fine della monarchia, ormai discreditata dopo 240 anni di potere con poche concessioni, e nel 2007 alla nascita di una repubblica federale consegnata agli eredi di una guerriglia comunista che continua a detenere il potere assoluto in diverse aree del Paese, non hanno portato stabilità, essenziale per l’avvio di un processo di riconciliazione e di riabilitazione economica. Le antiche e nuove logiche di potere e molti interessi hanno contribuito negli ultimi cinque anni a rendere più dinamico ma instabile un quadro generale che prima era statico e profondamente ineguale. «In mancanza di canali di comunicazione condivisi, chi opera alla base ha ora un grande potere di persuasione – dice Gopal Siwakoti, attivista nepalese per i diritti umani –. Almeno dalla metà degli anni Novanta, i soli ad avere portato nei villaggi una diversa prospettiva sono stati i maoisti. Certo, l’hanno proposta sovente con metodi brutali, ma alla fine in modo indipendente e nuovo. In una società dove vigono ancora forti regole feudali, hanno indicato una prospettiva diversa ma, in fondo, da aguzzini contro tiranni». Dopo la parentesi di governo chiusasi nel 2008, i maoisti hanno ripreso le iniziative di propaganda e di azione di un tempo, sebbene non abbiano ancora riaperto il lungo e sanguinoso capitolo della lotta armata; nel frattempo, il governo – che in parte ha recuperato le vecchie logiche elitarie – non è riuscito a garantire unità sociale e stabilità che possano riaprire le vie in parte interrotte del turismo e inaugurare in maniera massiccia quella degli investimenti necessari al Paese. L’uscita dal sottosviluppo resta lontana, ma nel frattempo si allarga il divario, già storico, tra la capitale Kathmandu e il resto del Paese, fatte salve alcune enclave del turismo d’élite o zone franche dominate dell’ingombrante presenza commerciale indiana. Come succede per molte capitali del mondo in via di sviluppo, Kathmandu è una realtà quasi a sé stante, più in rapporto con il mondo esterno che con la realtà del Paese. Anche se la maggioranza dei quattro milioni di cittadini sono immigrati di prima generazione con rapporti frequenti con i villaggi d’origine, pochi tendono a riconoscere il livello di miseria e di frustrazione delle zone rurali. «Per questo, però, ogni progetto di sviluppo a lungo termine deve passare da Kathmandu», sostiene Simon Anholt, guru internazionale chiamato dal governo a definire un’identità utile a guidare il Nepal fuori dal sottosviluppo. La sua ricetta indica una diversa politica d’immagine verso l’estero, che corrisponda alle necessità del Paese e non all’immaginario globale; suggerisce di coinvolgere in una politica di investimenti, innovazione, nuovi modi di vita non solo le élite tradizionali ma anche settore pubblico, imprenditori, società civile, in un arco da cinque a dieci anni. Il tutto secondo standard internazionali e regionali. Ma regionale è anche la sfida di questo Paese. Con lo statuto federale, il riconoscimento di una maggiore autonomia alle comunità locali, ha anche riacceso le rivendicazioni identitarie. Potenzialmente disgregatrici, davanti a uno sviluppo che fatica a farsi strada. Da quando il Paese ha abbracciato la liberalizzazione economica, l’agricoltura – che pure resta al centro della vita della nazione – non ne ha beneficiato. Accompagnato da una nuova spirale di debiti per fare fronte ad acquisti di motocicli, cellulari, videoregistratori, oggi è il business a guidare il Paese. Commerci e iniziative imprenditoriali sono nella quasi totalità nelle mani di indiani, naturalizzati e non. Non è un caso se le espressioni politiche della regione del Terai, luogo di nascita del Buddha ma oggi soprattutto area di passaggio, perché pianeggiante, dell’invasione commerciale dall’India verso il Nepal centrale e la capitale, sono ago della bilancia della politica nepalese, sovente in rotta di collisione con gli interessi dei maoisti. Il contrasto tra il torrido Terai ribattezzato Madesh e le aree impervie del Nepal occidentale non potrebbe essere più stridente e non solo per ragioni geografiche. Qui, nella regione di Jumla, la più depressa del Paese, le statistiche elaborate a Kathmandu sembrano riguardare un altro pianeta. Soprattutto quelle della sanità e della povertà. Dice ancora Gopal Siwakoti: «In questa parte del Nepal la mortalità infantile è quattro volte più alta della media nazionale. Su dieci bambini, quattro muoiono entro il primo anno di vita. Non di patologie invincibili, ma di dissenteria, infezioni polmonari o di malattie infantili facilmente prevenibili con un vaccino».Proprio la condizione dei minori del Nepal, impiegati nella manifatture, nelle miniere, nel lavoro domestico in condizioni di semi-schiavitù (fino a tre milioni nella fascia d’età 5-14 anni, 7 milioni entro i 18 anni), pone un ulteriore peso sulle possibilità di decollo del Paese. «La guerra civile, che ha distrutto le infrastrutture sociali e accresciuto la violenza nella società ha colpito con più forza i bambini. Per i conflitti e per le troppe necessità, in molte aree del Nepal ai giovani sono praticamente negate una famiglia e un’istruzione», comunica sconsolato padre Norbert D’Souza, gesuita impegnato nelle attività sociali.
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