lunedì 26 agosto 2019
Nel III secolo a.C. ad Alessandria d’Egitto 72 saggi tradussero per la prima volta il testo biblico in una lingua diversa dall’ebraico: così la versione dei Settanta rese universali le Scritture
Una pagina del Codex Vaticanus che riprende la Bibbia dei Settanta scritta in lingua greca

Una pagina del Codex Vaticanus che riprende la Bibbia dei Settanta scritta in lingua greca

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Vige nella tradizione ebraica l’usanza del siyum: quando si finisce di studiare un intero trattato del Talmud si fa una festa. Lo stesso quando si porta a compimento un’opera importante, che ha richiesto tempo e molte energie. Dovremmo fare ora un bel siyum perché abbiamo tra le mani l’ultimo volume della versione italiana, con greco a fronte (testo fissato da Alfred Rahlfs nel 1935), della Septuaginta, nome tecnico con cui è conosciuta la prima traduzione della Bibbia dall’ebraico in greco. Fu compiuta nel III secolo avanti Cristo, da ebrei che vivano in Alessandria d’Egitto allora sotto il dominio della dinastia ellenizzata dei Tolomei, in controllo anche della terra di Israele e di Gerusalemme. L’intera opera in quattro volumi (circa cinquemila pagine) è interamente edita dalla Morcelliana di Brescia. Venne progettata quindici anni fa dal filologo e storico Paolo Sacchi, dell’università di Torino, e il primo volume ossia il Pentateuco (la Torà vera e propria) vide la luce nell’estate del 2012. Seguono nel progetto i due tomi dei Libri storici, poi il volume dei Libri poetici (più noti come Sapienziali), e in questi mesi l’ultimo, forse il più difficile da tradurre, il volume dei Profeti. In quest’impresa di enorme valore culturale e religioso si è cimentato il meglio dei nostri studiosi italiani (grecisti, semitisti e storici del Vicino Oriente antico): da Sacchi a Paolo Lucca, da Corrado Martone a Luca Mazzinghi, da Pier Giorgio Borbone a Liliana Rosso Ubigli, da Piero Capelli ad Anna Passoni Dell’Acqua, e con loro un gruppo di giovani talenti che hanno non solo tradotto ma anche controllato, annotato e commentato ogni minimo dettaglio di questa Bibbia in greco sanza la quale, il giudizio è puramente storico, il cristianesimo non sarebbe mai nato.

Nella sua introduzione generale (che ogni lettore non devozionale della Bibbia dovrebbe conoscere) Paolo Sacchi si chiede che senso abbia oggi questa “traduzione di una traduzione” e perché cimentarsi con il greco, visto che ormai da tempo, si potrebbe dire dall’epoca di Girolamo, le traduzioni dell’Antico Testamento (più propriamente detto Tanakh) tendono a essere fatte a partire dall’originale ebraico. Delle molte risposte possibili, lo studioso torinese sceglie quella forse meno intuitiva ma più profonda: la Septuaginta non è solo una “traduzione” della Bibbia ebraica, ne è già una prima «interpretazione » (così la definisce nel I secolo Filone Alessandrino, il filosofo ebreo che tentò di coniugare gli insegnamenti e le leggi di Mosè con la metafisica di Platone). Attraverso questa traduzione il tesoro della rivelazione custodito dal testo ebraico si aprì e fu reso accessibile per la prima volta in un’altra lingua, destinata a diventare universale, almeno nella sfera occidentale del mondo: la lingua colta della poesia omerica, della filosofia e della scienza. Non fu un passaggio scontato. L’ebraico era considerato lingua sacra, dunque intoccabile, e l’esigente monoteismo etico che la Torà di Israele veicolava non sembrava affatto traducibile nella lingua degli dèi olimpici e dei sofisti ateniesi. Per legittimare questa traduzione, agli occhi degli stessi ebrei della diaspora, occorreva avvolgerla in un “miracolo”. E tale fu considerato l’evento straordinario, narrato dalla Lettera di Aristea (scritto anonimo del II secolo a.C.) e poi dallo stesso Filone, che spiega il nome di questa traduzione, Septuaginta appunto la Settanta, e come essa sia stata “ispirata” da Dio stesso e dunque non inferiore al testo ebraico.

Narra la storia che il re Tolomeo di Alessandria volesse una traduzione delle leggi sacre agli ebrei per la sua grande e (poi) proverbiale biblioteca e che ne commissionasse una copia tramite il direttore Demetrio direttamente al sommo sacerdote del Tempio di Gerusalemme. Questi gliela mandò, ma insieme a ben settantadue saggi traduttori, sei per ognuna delle dodici tribù di Israele, i quali, rinchiusisi nell’isolotto di Faro, produssero la famosa traduzione in una versione fedele ossia, come credeva con certezza Filone, perfettamente corrispondente all’originale ebraico. Una variante della storia (del mito) vuole che ognuno traducesse per conto proprio e che alla fine tutte le settantadue versioni concordassero nei dettagli. Ecco come il “miracolo” sancì il valore religioso della traduzione. E poiché settanta era il mitico numero ebraico dei popoli e delle lingue della terra, il testo venne subito rinominato semplicemente la Settanta. Questo testo fu divenne così d’uso comune tra gli ebrei ellenizzati che poco e nulla sapevano ancora di ebraico; in questa veste greca circolava nelle sinagoghe della diaspora mediterranea, cui si rivolse all’inizio la predicazione di Paolo di Tarso; questa è la Bibbia che, uscendo dal mondo ebraico, raggiunse e conquistò i non ebrei alla causa del Dio di Israele.

Certo, filologicamente e storicamente questi passaggi sono stati più complessi, assai meno lineari di quanto si dica, e i traduttori commentatori della nuova versione in italiano non mancano di puntualizzarli. Le domande abbondano: esiste davvero concordanza tra ebraico e greco? Su quale sefer ovvero rotolo ebraico venne fatta quella prima trasposizione in greco? In quanti decenni (e dove) venne completata la traduzione del Tanakh? Davvero esisteva un solo “testo originale” da tradurre o invece ne circolavano diversi e niente affatto concordanti? Perché, se la Settanta era considerata una versione ispirata da Dio, alla fine del IV secolo Girolamno (e con lui papa Damaso) vollero una traduzione in latino, la Vulgata, fatta di nuovo consultando l’ebraico? Se solo in parte abbiamo risposte soddisfacenti a queste domande, resta il fatto che la storia della Bibbia comincia, almeno fuori da Israele, con l’avventura di questa affascinante traduzione. Essa spiega tra l’altro la discrepanza tra i libri del Tanakh, ossia il canone della Bibbia ebraica (chiuso nel I secolo d.C. circa) e i libri dei diversi canoni della Bibbie cristiane: copta, greco-orientale, latino- cattolica, protestante. E ciò a dispetto del fatto che tale Bibbia greca fosse usata anche dagli ebrei nella terra di Israele, ad esempio nella scuola di Jochanan ben Zakkaj, il più autorevole “fariseo” (nel senso più positivo del termine) che a Yavne aprì una scuola di Torà fondando il giudaismo rabbinico come lo conosciamo ancora oggi.

Come ha spiegato a suo tempo Francesca Calabi, esperta di giudaismo ellenistico, «solo nel II secolo la Settanta venne abbandonata dal mondo ebraico sulla base di molti dubbi circa la fedeltà all’originale». Inoltre in greco molte espressioni erano state adattate a una diversa sensibilità culturale e snaturate rispetto all’ebraico e molti antropomorfismi erano stati interpretati o meglio rimossi (ad esempio «camminare con Dio» era divenuto un «compiacere Dio»; l’attributo divino «uomo di guerra » fu reso addirittura con «colui che distrugge le guerre»; l’ordine dei dieci comandamenti era stato modificato; quello dei profeti pure, e via elencando). Dal II secolo fu chiaro che la “setta” dei giudeocristiani usava la Settanta come unico testo di riferimento e da quel momento i maestri di Israele la rifiutarono. Si fecero allora nuove traduzioni in greco del Tanakh, più fedeli all’ebraico, ma ormai la Settanta era già divenuta fuori da Israele semplicemente “la Bibbia”, con la sua diversa ripartizione dei libri, con le aggiunte e con tutte quelle modiche (si pensi alla «giovane donna» trasformata in «vergine » in Isaia 7,14) che serviranno da legittimazione teologica al Nuovo Testamento. Ecco perché conoscere la Settanta è fondamentale per capire la storia della cultura occidentale.

L’editrice Morcelliana ha appena completato la pubblicazione della traduzione italiana de “La Bibbia dei Settanta” nota anche come Septuaginta o LXX (con testo greco a fronte) in quattro volumi, sotto la direzione di Paolo Sacchi e la cura redazionale di Marco Bertagna, nella collana Antico e Nuovo Testamento. Il primo volume è il Pentateuco, corrispondente alla Torà ebraica, curato da Paolo Lucca, uscito nel 2012 (pp.1022). Il secondo volume dei Libri storici, corrispondente più o meno ai Profeti anteriori nel Tanakh, è stato diviso in due tomi, a cura di Pier Giorgio Borbone, apparsi nel 2016 (pp.1656). Il terzo volume porta il titolo di Libri poetici (vi sono degli scritti sapienziali del Tanakh, ma anche testi che non fanno parte del canone ebraico), uscito nel 2013 a cura di Corrado Martone e Paolo Lucca (pp.1232). Il quarto e ultimo libro è quello dei Profeti ovvero Profeti posteriori nel Tanakh, uscito ora a cura di Liliana Rosso Ubigli (pp.1184, euro 78).

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