sabato 24 ottobre 2015
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Ernesto Balducchi è un ex di Prima Linea. Fu lui a recapitare in Arcivescovado a Milano, il 13 giugno 1984, tre borse piene di mitra e pistole per il cardinale Martini, a nome di centinaia di terroristi che rinunciavano alla lotta armata senza chiedere sconti di pena. Fu il passaggio dalla stagione dei 'pentiti' a quella dei dissociati. Come arrivaste a quella scelta? «La riflessione era in atto da tempo. Il punto era come essere credibili. Pensammo così a un segnale concreto da inviare a chi era disposto ad accettarlo. E non era all’esito processuale che noi puntavamo». E a che cosa? «Puntavamo a convincere quelli che erano ancora fuori. Non ci sentivamo di accusarli, anche perché non sapevamo se avevano maturato scelte diverse. Si trattava per lo più di persone con responsabilità minori rispetto a noi e ciò avrebbe reso ancor più ingiusto tirarli in ballo». Eravate pentiti nell’animo, ma vi rifiutaste di fare i pentiti. «Ci eravamo resi conto di aver usato uno strumento sbagliato. Il male considerato minimo indispensabile per realizzare il nostro progetto, di fronte all’evidenza del fallimento politico si presentò ai nostri occhi come male e basta. Venivano fuori le persone, le vittime. Ma non sapevamo che cosa fare. Per questo scrivemmo a Martini, pensammo alla consegna delle armi per spingere alla stessa scelta anche chi era fuori». Perché sceglieste il cardinale Martini? «Sapevamo di aver sbagliato, ma non è che la società fosse perfetta e non ci fosse bisogno di cambiarla. Vedemmo attraverso Martini, che ci aveva rivolto un appello, la possibilità di un cambiamento che non richiedesse la violenza e l’uso delle armi». Quando aveva conosciuto il cardinale? «L’avevo incontrato a San Vittore quando venne a visitarci. Avevo nascosto, sfuggendo ai controlli, una copia della Storia della Colonna infame di Manzoni dentro i pantaloni per fargliene dono con dedica. Il direttore nel vedere il gesto mi fulminò e subito dopo fulminò il brigadiere di guardia». Perché quel libro? «Perché raccontava di persone che si autoaccusavano ai tempi della peste anche di cose non commesse pur di convincere i giudici: il nostro obiettivo non era avere sconti di pena, ma trasformare la pena in forme di risarcimento utili alla società». L’incontro con le vittime come è nato? «Il desiderio di porre rimedio, nei limiti del possibile, al vulnus arrecato a chi aveva pagato di persona l’avevamo da tempo. Così, quando ho saputo che c’erano persone disposte a incontrarci mi si è aperto un mondo. È stata una cosa eccezionale poter parlare o dare un aiuto concreto, nei limiti delle nostre possibilità». Per chi è stato più difficile, per voi o per loro? «Credo per loro, che non hanno colpe da farsi perdonare, come noi. Ma una spiegazione a loro è dovuta. E anche il solo parlarsi, il venirsi incontro, è un piccolo seme che può contribuire a risanare quella ferita. Che se non si risana non se ne esce mai fuori, non si capisce che cosa sono stati quegli anni». Che cosa sono stati? «Una generazione ha provato a inseguire il sogno di una società diversa con mezzi datati di 100-200 anni, che dove erano stati usati avevano già dato frutti negativi: Il seme stesso era 'sbagliato'. Siamo stati gli epigoni di un’ideologia che pretendeva di cambiare il mondo ma non era in grado di farlo».
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