venerdì 11 febbraio 2022
Un volume dei “Meridiani” raccoglie tutta la poesia del grande autore. Il radicamento e il sentimento vivono nella lezione degli antichi
Camillo Sbarbaro

Camillo Sbarbaro - archivio

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«Piccola goccia bastami / per essere felice» confessa un pino «rachitico » apprezzando l’umile resina del suo tronco nella prima poesia del volume d’esordio di Camillo Sbarbaro del 1911 e oggi in apertura del volume dei “Meridiani” Mondadori che finalmente rende omaggio a un «classico del Novecento ». Così avevano già definito l’autore nato a Santa Margherita Ligure nel 1888 i curatori della meritoria edizione Garzanti delle sue opere uscita poco dopo il centenario della nascita, Gina Lagorio e Vanni Scheiwiller. Ma i due non avevano inserito i testi di quella raccolta a tiratura limitata pubblicata dalla genovese tipografia Caimo & C. con una copertina di colore beige e un’incisione di Giuseppe Giglioli: la raccolta non veniva riprodotta per l’«esclusione tassativa di Sbarbaro». La diversa scelta di Giampiero Costa, cui si deve l’ottima cura del volume attuale di Poesie e prose (Mondadori, pagine 1.744, euro 80,00), è infatti determinata da un approccio stilistico e storico privilegiato rispetto alla classica e filologica volontà d’autore, con un prezioso recupero di testi dispersi e inediti, quindi senza voler approntare un’edizione critica, pur ricostruibile dall’approfondito apparato. Il lettore trova le varie opere secondo l’ordine cronologico di stampa, eccetto un caso. Così la princeps di Pianissimo uscita nel 1914 non è accompagnata dalla successiva versione (del 1954, che poi avrebbe aggiornato nel 1960 come work in progress) posta in altra sezione. Non sono però le disquisizioni specialistiche le questioni principali su questa poesia in divenire che innanzi tutto «continua a parlarci anche oggi – e a trovare ascolto – con il timbro semplice e familiare in bilico tra richiamo del nulla e valore dell’immanenza». Lo annota nell’acuto saggio introduttivo Enrico Testa citando i critici precedenti, da Squarotti a Bo, da Mengaldo a Polato e Beccaria, e i versi noti della raccolta più famosa, appunto Pianissimo, tra commozione per l’imminente morte del padre e istinti erotici: «Taci, anima stanca di godere / e di soffrire (all’uno e all’altro vai / rassegnato) ». E la natura torna sempre, perché «gli alberi son alberi, le case / sono case, le donne / che passano son donne, e tutto è quello / che è, soltanto quel che è». Dopotutto il poeta ligure è stato un grande studioso di licheni, con pubblicazioni scientifiche. Lo testimoniano pure le immagini raccolte in un piccolo ma riuscito inserto iconografico, con l’appassionato botanico negli anni 40 a raccogliere questi organismi che fondono le caratteristiche di alghe e funghi: «questa passione ha attecchito in me così durevolmente: rispondeva a ciò che ho di più vivo, il senso della provvisorietà». Non a caso parla anche di fossili, quindi resti di organismi viventi ormai scomparsi, quando si sfoga con l’amica Lagorio qualche anno prima della morte confessando: «io sono ormai fossilizzato nel mio modo di scrivere che non ammette una parola di troppo, una imprecisione di vocabolo». Con l’aggiunta: «Ciò costa: un mucchio di carta scritta per una riga da salvare». Il salvataggio è poi verso i testi del passato che meritano nuova vita attraverso le traduzioni dei tragici greci, studiati da Paolo Zoboli, come Il Ciclope di Euripide, e altri testi, però non antologizzati e compresi nel “Meridiano”, il cui maggior valore sta nelle note, deposito filologico e bibliografico per seguire il filo rosso della creazione letteraria sbarbariana che offre quanto Caproni ha ben definito: «Aprire una pagina di Sbarbaro è aprire una finestra sulla Liguria terra di sassi e di acque d’un infinito celeste... così autentica da diventare allegoria del mondo ». Proprio perché il poeta ha saputo osservare il mondo «con occhio appassionato e disincantato». L’approccio all’autore di Pianissimo non è esente da commozione: «Padre, se anche tu non fossi il mio / padre, se anche fossi a me un estraneo / per te stesso egualmente t’amerei». E i titoli delle raccolte sono un riflesso paratestuale della sua visione: Rimanenze o Fuochi fatui o Gocce o ancora Trucioli, recensiti per primo da Montale, che dedica all’amico insegnante e pubblicista un occhiello di Ossi di seppia. Insieme hanno cantato la sensibilità femminile sempre nella cornice delle piante e dell’ambiente in riva al mare, come quando Sbarbaro ci fa intravedere «la bambina che va sotto gli alberi / non ha che il peso della sua treccia, / un fil di canto in gola». Scrive questi versi, con quell’unità linguistica così cristallina che lo contraddistingue, rappresentando «noi che non abbiamo / altra felicità che di parole». È un sentimento profondo che dura fino a quando si aggrava il suo stato di salute e viene ricoverato all’Ospedale San Paolo di Savona. Qui muore il 31 ottobre 1967 in una stanza che ha una finestra verso il cielo e gli alberi della sua Liguria ripensa all’importanza della parola poetica: «se non è troppo chiedere, sia tolta / prima la vita di quel solo bene».

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