martedì 2 ottobre 2012
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Il sigillo della povertà, questo si riconosce nel progetto vincitore. Eppure il Premio internazionale di Architettura sacra «Frate Sole», un poco il «Pritzker» per l’architettura delle chiese, vuole riportare in primo piano sulla scena mondiale questo settore oggi «di nicchia», che in passato era la punta di diamante dell’arte edificatoria, quando la chiesa segnava con la sua magnificenza il centro nobile della città. Costituito dal compianto padre Costantino Ruggeri, francescano e artista, il Premio ha visto prevalere quest’anno, alla quinta edizione, il cileno Cristián Undurraga col progetto della cappella di Auco in Cile, posta in un sito paesistico di grande rilevanza, prossimo alla valle andina che consente il passaggio in Argentina. Il perimetro della cappella è quadrato, le pareti esterne in lastre prefabbricate di calcestruzzo sono rivestite all’interno di traversine ferroviarie, e sono totalmente cieche: la luce entra solo dallo spessore che sta tra il cratere sopra il quale è ancorata la struttura grazie agli sporti angolari. E questa appare più che semplice: spoglia.Architetto, in che misura il «genius loci» ha influito sul suo progetto? «Credo che l’opera sia sempre definita dal luogo in cui sorge. Il santuario carmelitano di Auco è circondato da un panorama stupendo. I colli dominano sull’architettura neocoloniale del monastero: il sito ha rilevanza paesistica, più che architettonica. Conseguentemente ho pensato a un volume opaco di calcestruzzo, che evocasse la compattezza della roccia, in dialogo con le vicine cime di granito. Con questo, il nuovo edificio non tralascia la memoria delle chiese che qui furono costruite in passato, né ignora i tracciati che attraversano il luogo: si pone infatti sul sentiero che giunge dal piazzale della vicina Casa del Ritiro». L’architettura appare povera, ma l’idea di sollevarla sopra il terreno scavato e lo stesso percorso di accesso interrato acquisiscono un senso simbolico: il riferimento è alla morte e alla resurrezione? «La cappella commuove proprio perché è semplice. L’austerità della forma e dei materiali entra in sintonia con lo stato d’animo di chi decide di ritirarvisi per trovare nel silenzio un luogo consono al dialogo col Padre. L’idea di scavare nella terra evoca l’entrare nella profondità nel raccoglimento. E, stando all’interno, il volume sembra perdere la propria gravità, perché non si vedono i sostegni su cui poggia: così si richiamano la trascendenza e la sacralità. Vi sono quindi due aspetti distinti: l’interno ha un aspetto metafisico, l’esterno è razionale. Era lo stesso con le chiese gotiche: all’interno permeate di luce e colore, all’esterno si vedevano le strutture di sostegno. Questa cappella ripresenta il gotico in forme contemporanee. Molti hanno interpretato il levitare del volume come una celebrazione della Resurrezione... In realtà nel formulare il progetto, e seguendo l’arte del progettare, abbiamo voluto semplicemente conformare uno spazio di preghiera silenzioso e allo stesso tempo emozionante». Luogo di meditazione, ma anche di celebrazione. Come ha compaginato necessità liturgiche e forma architettonica? «Il progetto è stato pensato a partire dall’interno. L’aspetto essenziale richiestoci dal committente, era che fosse uno spazio mistico, un luogo atto alla preghiera. Il disegno esterno è venuto in un secondo tempo, come risposta logica, conseguenza dell’idea che il senso della trascendenza sarebbe derivato al volume che si stacca dal suolo. Grazie a questa impostazione di fondo, le azioni liturgiche proprie di un luogo di ritiro spirituale sono ben accolte nell’ambiente costruito».Ritiene che progettare una chiesa sia qualcosa di diverso rispetto alle altre opere edili? «Si tratta di costruire un luogo per lo spirito. Per un architetto è il privilegio maggiore, ma anche la sfida più grande. Senza dubbio per me questa cappella ha un significato del tutto particolare: è il risultato di un concorso e ha richiesto molto impegno. Il lavoro è stato arduo. Ne sono stato molto soddisfatto, perché il risultato finale esprime essenzialità: non c’è nulla di troppo, né di troppo poco. Spero che questo equilibrio permetta a questa architettura di durare nel tempo». Ha tratto ispirazione da qualcuno dei maestri dell’architettura contemporanea? «Noi architetti ci nutriamo della storia di chi ci ha preceduto: è sempre stato così. Certamente il teologo Romano Guardini è una lettura obbligata per chi è chiamato a lavorare sull’architettura e sull’arte per il culto. Lo stesso vale per l’opera di Rudolf Schwarz, o di Dom van der Laan: sono tutti autori da cui si apprende una profonda lezione etica, non solo architettonica. Alcuni anni fa con Rafael Moneo visitammo la cappella di Ronchamp e il convento di La Tourette, progettati da Le Corbusier: fu molto emozionante, un viaggio in luoghi germinali. Tra le opere degli architetti oggi attivi, le opere di Siza e di Moneo mi risultano particolarmente vicine».
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