domenica 28 giugno 2009
Jean-Marie-Baptiste Vianney non è solo un modello di fedeltà al sacerdozio: il mistero della sua vita ha intrigato in due secoli decine di romanzieri, anche non credenti.
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Rivisitato in chiave agiografica in una valanga di libri che a partire dai «grandi vecchi» come l’abbé Alfred Monnin – suo commensale – o monsignor François Trochu arriva ai nostri giorni, il racconto della vita di Jean- Marie- Baptiste Vianney, nel corso del tempo, non ha solo consumato gli occhi di torme di devoti, generazioni di seminaristi, donne pie, ma ha suscitato anche pagine di buona letteratura. Talvolta nate dalla penna di autori celebri, talvolta da quella di nomi dimenticati magari per ragioni politiche, non per giudizi sulla qualità delle loro opere. Il primo può essere il caso di Henri Ghéon che nei tre volumi del suo Les jeux de l’enfer et du ciel edito da Flammarion nel 1929 vede come personaggio onnipresente della narrazione proprio il santo curato che il gruppo di curiosi descritto raggiunge ad Ars. Il secondo è di certo il caso di Jean de La Varende, uno dei maggiori novellisti francesi del XX secolo che tra gli oltre 200 titoli annovera anche Le Curé d’Ars et sa passion apparso con i tipi di Bloud et Gay nel 1958 (alla vigilia del centenario della morte del santo curato), oppure – sulla stessa onda – il caso di un altro scrittore cattolico tradizionalista come Michel de Saint Pierre, una vita dedicata alla letteratura, autore dentro un’abbondante bibliografia anche della Vie prodigieuse du Curé d’Ars, uscita nel 1961 dall’editore Gallimard. Di un certo valore anche le pagine tessute da Daniel Pézeril, già cappellano del Centro cattolico degli intellettuali, già vescovo ausiliare di Parigi, nel suo Pauvre et Saint Curé d’Ars, tradotto in Italia dalla Morcelliana nel 1960. E proprio l’amicizia di Pézeril con Georges Bernanos (che accompagnò sino alla morte) ci porta alla presenza di don Vianney nella stessa opera bernanosiana: dal Diario di un parroco di campagna dove troviamo una sorta di «secondo Curato d’Ars» nel prete protagonista del romanzo Sotto il sole di Satana. Come dimenticare poi il filosofo e critico Ernst Hello che dedica l’ultimo capitolo del suo libro Le siècle al celebre sacerdote? Che dire poi del medaglione del prolifico Bruce Marshall nel suo Saints for Now, edito da Clare Boothe Luce nel 1952? E oggi? A voi il giudizio sul critico e saggista Rémy Soulié per Le Curé d’Ars (Pygmalion, 2003), o sul giornalista scrittore Jean­Jacques Antier per La vie du curé d’Ars (Perrin 2000), oppure ancora sulla biografia spirituale scritta dal noto poeta francese Jean Follain (Grand Prix de poésie de l’Académie Française) nel 1970, recentemente tradotta come Curato d’Ars. Quando un uomo semplice confonde i sapienti (San Paolo 2008). Se poi state attenti, ecco il nostro affacciarsi ospite su pagine dove non lo si attenderebbe ( ma a torto); è il caso del dramma metafisico Adesso viene la notte di Ferruccio Parazzoli ( Mondadori) che ha come baricentro la lotta di Paolo VI col demonio nei momenti del sequestro Moro, ma anche il diabolico degrado del nostro tempo («Giovanni Maria Vianney, il curato d’Ars. Sono passati duecento anni, eppure mi sembra ieri. Fu molto divertente, anche se alla fine rimasi con un palmo di naso. Ma questa volta non sarà così. I tempi sono cambiati. Basta guardarsi attorno… »). L’elenco potrebbe continuare dando conto di rapidi richiami in opere celebri come il romanzo Leila di Antonio Fogazzaro (« Paragonò, con trepide riserve, suo cognato al Curato d’Ars e don Emanuele a sant’Alfonso. Lelia non intese una sola di tante parole... » ); o come Bouvard e Pécuchet di Gustave Flaubert (« Un anello al mignolo racchiudeva alcuni capelli del Curato d’Ars…) e via dicendo (bellissime le pennellate di don Giuseppe De Luca nell’Annuario del Parroco che dice di lui: «Faceva parere Lamartine e Lacordaire due poveri strumenti» ). Ma preferiamo chiudere con un rimando a Cristina Campo dedicato al prete tanto amato da Simone Weil. Si legge in una sua lettera a Margherita Pieracci Harwell vergata domenica in palmis 1966 (edita nell’epistolario Lettere a Mita pubblicato da Adelphi): «L’altra sera ho preso in mano i Taccuini del dottor Cechov, un libro che fino a due anni fa era la mia delizia, e dopo 10 minuti l’ho riposato. Una volgarità impalpabile, sottile, la volgarità del laico, dell’incredulo, evaporava da certe piccole osservazioni di quell’uomo per tanti versi adorabile. Così, per rallegrarmi senza la minima ombra di noia (la volgarità è veramente di una noia desertica), ripresi una grande biografia del Curato d’Ars. Si muore di paura, a leggerla, ma di noia – oh di noia no certo. È il solito caso del Santo deformato dalla demoniaca perversità del secolo in bravo piccolo parroco di villaggio, tutto nature, ignorante quanto basta e santamente puerile. Mentre si tratta di una terribile aquila che ti rapisce nel suo forte becco ad altezze spaventose e poi, come l’uccello Roc che trasportava Sindbad, ti lascia cadere con la massima indifferenza; e peggio per te se non sai volare. Non mi stupisce che Simone lo amasse tanto».
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